Nonostante alcuni Stati europei della Nato siano stati tradizionalmente restii a distogliere lo sguardo dall’Europa, il vertice del 14 giugno ha registrato la nascita di convergenza transatlantica per quanto riguarda l’Indo-Pacifico. Il punto di Lorenzo Termine, analista del Centro Studi Geopolitica.info
L’ascesa della Repubblica Popolare Cinese sembra aver innescato il tradizionale trend di competizione che le teorie sulle transizioni di potere prevedono quando una potenza emergente si affaccia prepotentemente sul palcoscenico internazionale e una consolidata, invece, guarda dall’alto con apprensione il proprio vantaggio ridursi. Ciò ha indotto gli Stati Uniti ad un ripensamento dei propri obiettivi e priorità strategiche che ha parzialmente coinvolto anche la maggiore alleanza di cui Washington è promotrice, l’Alleanza Atlantica, che dalla fondazione non aveva mai rivolto la propria attenzione al quadrante asiatico. Il dilemma che rischiava di profilarsi all’orizzonte, esistenziale secondo alcuni, non è in alcun modo una novità. Già nel 2000 alcuni tra i maggiori esponenti delle teorie sulle transizioni di potere – Ronald Tammen, Jacek Kugler e Douglas Lemke tra gli altri (si veda qui) – scrivevano: “dal punto di vista della teoria della transizione del potere, gli attuali piani per una limitata espansione della NATO ignorano il più grande problema di sicurezza futura per l’Occidente, che non è la Russia stessa, ma la possibilità a lungo termine di una transizione del potere tra Stati Uniti e Cina durante questo secolo”.
Negli anni dieci, il “Pivot to Asia” dell’amministrazione di Barack Obama, complementare al “retrenchment” strategico da altre aree del mondo, aveva spostato il baricentro dell’attenzione strategica americana verso l’Asia in cui ambiva a gestire la competizione (cinese) da una posizione di forza, insistendo affinché la Cina si conformasse alle norme e alle regole internazionali, ispirandosi ad un approccio definito come “engage but hedge”, nelle parole di Graham Allison, o “congagement” (crasi di containment ed engagement): approfondire la relazione con la Cina ma contenerne la sfida. L’amministrazione di Donald Trump aveva confermato tale perno asiatico riconoscendo – sia nella NSS-17 che nella NDS-18 – in Pechino una “potenza revisionista” che starebbe utilizzando metodi economici predatori per intimidire i propri vicini e militarizzando il Mar Cinese Meridionale, perseguendo l’obiettivo di una propria egemonia nella regione contro la quale l’amministrazione Trump promuoveva la Free and open Indo-Pacific strategy. Il semestre del nuovo inquilino della Casa bianca, l’ex vice-presidente Joe Biden insediatosi il 20 gennaio scorso, seppur breve ha già chiarito alcuni tratti fondamentali dell’approccio strategico dei prossimi quattro anni. Pechino è, infatti, riconosciuta come l’unico competitor potenzialmente capace di sfidare, sul fronte economico, diplomatico, militare e tecnologico, l’equilibrio del sistema internazionale. Dal report dell’Office of the Director of National Intelligence, inoltre, si evince chiaramente come Washington ritenga che Pechino, con un atteggiamento piuttosto camaleontico, sarà capace di alzare o abbassare la tensione per garantirsi quella supremazia tanto agognata sul continente asiatico. Nel suo discorso inaugurale, il neo-presidente Biden si è affrettato ad aggiungere che riparare le alleanze non serve “ad affrontare le sfide di ieri, ma quelle di oggi e di domani”. Se si legge questo intervento alla luce del discorso del segretario dell’Alleanza Jens Stoltenberg su Nato2030, si può comprendere a pieno la necessità sentita dalla Nato di sviluppare un approccio globale di fronte al mutamento negli equilibri di potere determinato dall’ascesa cinese.
Nonostante alcuni Stati europei della Nato siano stati tradizionalmente restii a distogliere lo sguardo dall’Europa per concentrarlo su altre aree del globo, altri capitali europee stanno iniziando a tributare maggior interesse alle dinamiche di sicurezza della regione Indo-Pacifica: sia la Germania che la Francia, ad esempio, hanno recentemente pubblicato documenti strategici in cui si sottolinea la centralità dell’Indo-Pacifico per la sicurezza e la stabilità economica, politica, sociale e transatlantica e si enfatizza il ruolo dei partenariati con i Paesi dell’area. Alcune operazioni navali di contenimento dell’espansionismo cinese, peraltro, sono già condotte da singoli membri della Nato come Francia, Regno Unito e Canada, e in una sempre più salda cooperazione con il Giappone, a indicare il loro crescente interesse per l’area. La Germania ha recentemente annunciato che una nave da guerra attraverserà il Mar Cinese Meridionale, per la prima volta in vent’anni, per poi svolgere manovre nel Mar Cinese Orientale. Nell’incontro tenutosi in videoconferenza il 13 aprile 2021 tra i ministri degli Esteri e della Difesa di Berlino e Tokyo, i due paesi hanno manifestato il chiaro proposito di cooperare in maniera sistematica per mantenere un Indo-Pacifico libero e aperto. Il 16 marzo scorso il Regno Unito ha pubblicato la sua Integrated Review of Security, Defence, Development and Foreign Policy (consultabile qui), in cui vengono delineati i punti principali di quella che sarà la postura strategica di Londra per il futuro a venire. La Review annuncia un rinnovato interesse da parte del Regno Unito verso l’area dell’Indo-Pacifico, un “Indo-Pacific tilt” per cui, ferma restando la priorità Euro-Atlantica della politica estera britannica, l’area risulta comunque cruciale per l’economia e la sicurezza del Regno, oltre che un elemento di fondamentale importanza nel tentativo britannico di promuovere la creazione e la conservazione di società aperte nel globo. Il 19 aprile 2021, il Consiglio dell’Unione europea, che riunisce i ministri degli affari esteri dei 27 Stati membri dell’Ue, ha raggiunto un consenso a favore di una “Strategia dell’UE per la Cooperazione nell’Indo-Pacifico”. Pur non essendo ancora una strategia vera e propria – come rilevato da Giulio Pugliese (qui) – il libro bianco europeo è il primo passo verso un comune approccio alle questioni strategiche asiatiche.
È in questo contesto che si è svolto il Summit 2021 della Nato a Bruxelles. Riassumendo, nella capitale belga, gli alleati hanno introdotto alcune novità rilevanti per l’Alleanza. Quelle principali – “ça va sans dire” – riguardano anche la Cina, dossier sul quale c’è stata una maggiore convergenza da parte degli Stati membri rispetto al passato. Se nel Concetto strategico del 2010 Pechino non veniva mai menzionata e nella dichiarazione di Londra del 2019 le veniva riconosciuta la duplice natura di “sfida e opportunità”, nel Communiqué pubblicato dopo l’incontro i toni sono cambiati. “Il comportamento assertivo della Cina” – si legge nel documento – “presenta sfide sistemiche all’ordine internazionale, alle aree rilevanti per la sicurezza dell’Alleanza e va in contrasto con i valori fondamentali sanciti nel Trattato di Washington”. Tra le principali preoccupazioni di Boulevard Leopold III, modernizzazione militare (tra cui l’espansione dell’arsenale nucleare), cooperazione con Mosca e aumento dell’influenza sullo scacchiere globale.
Il Summit testimonia, quindi, una maggiore convergenza degli alleati per quanto riguarda l’Indo-Pacifico. Nonostante le divergenze, sembrerebbe, quindi, che un allineamento sia “in-the-making” all’interno dell’Alleanza.