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Cosa c’è dietro il valzer di Putin in Afghanistan

Con le truppe americane e occidentali ormai quasi del tutto rientrate a casa, in un Afghanistan conquistato dai Talebani si apre un varco per la Russia di Putin. Dai colloqui alla strategia militare, così Mosca si proietta a Kabul. L’analisi di Giovanni Savino (Accademia presidenziale russa, Mosca)

Il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan, con il repentino abbandono della base di Bagram, e la conseguente avanzata dei talebani nel paese creano non poche preoccupazioni in Asia Centrale e, di riflesso, in Russia.

Già da alcuni giorni i punti di transito alla frontiera con il Tagikistan vedono transitare migliaia di persone in cerca di riparo dai talebani, con un afflusso problematico da gestire per il piccolo e povero paese centrasiatico, e il timore che si possa estendere a tutta la regione una nuova riscossa islamista è forte, soprattutto in un contesto molto delicato per i regimi a capo di quegli stati.

Le conseguenze della riscossa talebana sono tutte da definire, e per Mosca si tratta di affrontare, ancora una volta, la questione afgana, che sin dal Grande gioco dell’Ottocento non ha mai smesso di ripresentarsi periodicamente nell’agenda di politica estera, sempre con effetti dirompenti, come dimostrato dall’intervento sovietico nel paese e dalla successiva ritirata, ancora oggi uno dei traumi più forti che hanno accompagnato la fine dell’Urss.

L’8 luglio una delegazione talebana è stata ricevuta dal Ministero degli esteri della Federazione russa per colloqui sulla situazione al confine tagiko. L’interesse di Mosca è dovuto alla partecipazione del Tagikistan all’ODKB, l’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva, patto che coinvolge, oltre alla Russia e al paese centrasiatico, Armenia, Bielorussia, Kazakistan e Kirghizistan: infatti, proprio il governo tagiko ha chiesto l’intervento dell’ODKB per far fronte alla situazione alla frontiera e di arginare i talebani.

Vi è anche un altro motivo, la presenza della base militare 201 dell’esercito russo, forte di circa 7000 effettivi e dislocata nella capitale Dushanbe, da sempre garanzia dell’ordine nel paese, dopo aver preso parte attivamente alla guerra civile degli anni Novanta a fianco delle forze lealiste contro l’insorgenza islamista. Nel 2001, all’inizio dell’intervento militare in Afghanistan, le truppe della 201 hanno pattugliato il confine tagiko, per bloccare eventuali sconfinamenti dei talebani in fuga dall’avanzata americana.

L’incontro di Mosca con i rappresentanti dei talebani non è il primo del genere: già nel 2019 una delegazione prese parte alla celebrazione del centenario dei rapporti diplomatici russo-afgani, anche in quel caso suscitando parecchie polemiche. Il motivo è semplice: il movimento dei talebani è proibito in Russia, e inserito nella lista delle organizzazioni terroriste dal 2003, anche perché alla fine degli anni Novanta dall’Afghanistan erano arrivati finanziamenti, sostegno e armi all’ala radicale islamica in Cecenia.

Il Ministero degli esteri russo invoca a tal proposito ragioni di realpolitik, sicuramente importanti e comprensibili, però in contraddizione con altre posizioni espresse dalle autorità di Mosca in sostegno all’attuale governo di Kabul. L’Afghanistan dal 2013 ha lo status di osservatore nell’ODKB, e il 2 luglio scorso, sei giorni prima dell’arrivo dei talebani nella capitale russa, vi è stato un incontro tra Nikolay Patrushev, segretario del Consiglio di sicurezza della Federazione Russa, e Hamdullah Mohib, consigliere del presidente afghano Ashraf Ghani sulle questioni inerenti la sicurezza nazionale. Anche in questo caso, come nel summit con i talebani, si è ribadita la necessità del dialogo tra le parti, dichiarazioni di rito che al momento non chiariscono quale posizione vi sia a Mosca sulla questione afghana.

Di certo vi è che nel breve e nel medio periodo non è realistico pensare a un intervento militare russo in Afghanistan, come vagheggiato da alcuni media. Il trauma degli anni Ottanta è ancora forte nella società russa, e Mosca non ha le forze per reggere un nuovo campo d’intervento, che creerebbe ancora più problemi.

Sergey Lavrov ha ribadito, durante l’incontro con i talebani, l’adesione ai principi di sicurezza collettiva e quindi la possibilità di intervenire al fianco del Tagikistan in caso di violazione dei confini, ma in realtà Mosca vuole provare a guadagnare un proprio spazio nello scenario asiatico come mediatrice nel conflitto afghano.

Resta da capire come, visto che le rassicurazioni dei talebani lasciano sempre il tempo che trovano, essendo da sempre pronti a cambiare in corsa le proprie posizioni, e come la ricostruzione di un emirato islamico alle porte della sfera d’influenza russa potrebbe portare al risveglio di pericolose pulsioni nell’area.



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