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Il futuro della gig economy passa dal Massachusetts?

Di Lorenzo Santucci

Il dibattito sulla classificazione dei rider, degli autisti di Uber e di chi lavora grazie alle app è sempre più acceso: in Massachusetts le aziende del settore hanno presentato una proposta di referendum (da votare insieme alle elezioni di Midterm) per dare garanzie minime a questi lavoratori senza classificarli come dipendenti. Sentenze, proposte di legge e la situazione italiana

Il futuro dei lavoratori della gig economy potrebbe passare per il Massachusetts. Una coalizione di aziende, che includono colossi come Uber, Lyft, DoorDash e Instacart, ha infatti avanzato la proposta di inserire nella scheda elettorale delle elezioni del prossimo anno una misura che trasformerebbe i loro lavoratori in liberi professionisti. In questo modo non sarebbero classificati come dipendenti di tali società, sfuggendo così alle leggi statali e facendo risparmiare alle aziende tra il 20% e il 30% dei costi. Una proposta che è alla base del concetto della gig economy, che prevede una prestazione di lavoro occasionale e temporanea, mentre un contratto stabile potrebbe allontanare chi cerca lavori saltuari (gig) per lavorare in base alle proprie esigenze o per arrotondare un altro stipendio. Questa è la posizione delle aziende e, neanche a dirlo, sindacati e autorità governative sono sul piede di guerra.

La Massachusetts Coalition for Independent Work –  questo il nome della coalizione – ha assicurato che a chi lavorerà almeno 25 ore alla settimana saranno garantiti stipendi completi, mentre chi sarà impiegato più di 15 ore riceverà determinati benefits. Tra questi, l’assistenza sanitaria e un salario minimo di $18 all’ora (oltre a 26 cent per miglio, da utilizzare per coprire le spese), superiore ai $13,50 previsti dal governo federale ma che coprono ogni ora della giornata lavorativa. Sì, perché un guidatore stipendiato da una di queste aziende riceverà un compenso pari alle ore trascorse su strada, mentre quelle in attesa non saranno retribuite.

Secondo quanto riportato dal Boston Globe, la maggior parte dei conducenti locali rientra nella seconda categoria.  “Nello Stato del Massachusetts, pensiamo che la risposta giusta sia il nostro modello IC+, un libero professionista con dei benefits”, ha dichiarato Dara Khosrowshahi, Ceo di Uber, sottolineando come gli autisti “lo amano” dato che “la Proposition 22 ha dimostrato di essere estremamente popolare tra i conducenti della California”.

Gli Stati Uniti, infatti, non sono digiuni a proposte simili. Quella presa da esempio da Khosrowshahi è l’iniziativa elettorale più costosa nella storia della California, per cui le aziende hanno investito 200 milioni di dollari e grazie alla quale sono riuscite ad ottenere l’esenzione dei lavoratori da una legge statale che, altrimenti, li avrebbe classificati come dipendenti aziendali. Una replica che adesso si attende per il Massachusetts, dove il Ceo di Uber non vede per quale ragione la proposta dovrebbe essere osteggiata dai conducenti e quindi rischiare di non arrivare alle prossime elezioni del novembre 2022 – per poi entrare in vigore l’anno dopo.

A lei, però, ha risposto l’organizzatrice di Gig Workers Rising, Shona Clarkson, molto critica nei confronti della Prop 22 e della possibile proposta gemella. “Non c’è indipendenza nel lavorare più di 70 ore a settimana, non essere in grado di stabilire le proprie tariffe, di non vedere dove sta andando una corsa e non avere un vero controllo sul lavoro. I benefici promessi dalla Prop 22 erano una farsa che non si sono concretizzati. Essendo una rete di oltre 10mila gig workers nello Stato della California, non abbiamo visto autisti Uber in grado di accedere a vantaggi significativi dall’implementazione della Prop 22”, ha affermato a TechCrunch.

Dello stesso avviso i sindacati, pronti a non indietreggiare di un passo per far sì che quei lavoratori vengano trattati da dipendenti. A non convincerli sono i vantaggi previsti, inferiori di molto rispetto a quelli che i gig workers potrebbero ottenere se riconosciuti come dipendenti. Basti pensare al rimborso spese previsto: quello imposto dall’IRS è pari a più del doppio (56 cent) rispetto a quello offerto dalle società. A dar manforte alle loro ragioni una legge del Massachusetts del 2004, secondo cui i lavoratori che eseguono istruzioni delle aziende che li impiegano e che svolgono una regolare attività devono essere considerati dipendenti. Senza dimenticare la causa in corso intentata dal procuratore statale Maura Healey, una democratica, contro Uber e Lyft proprio nel merito della classificazione dei lavoratori delle due aziende.

E poi c’è la questione politica. Il Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti ha annunciato di voler fare marcia indietro sui provvedimenti adottati in extremis dall’amministrazione Trump, che avrebbero aiutato le imprese a raggiungere i loro obiettivi. A marzo il presidente Joe Biden ha deciso quindi di ritardare l’entrata in vigore delle norme, compresa quella che disciplina quando un’azienda può assumere le caratteristiche di datore che offre lavoro solo su prestazione temporanea. Per cercare di venire incontro alle autorità, i rappresentanti delle società si sono seduti al tavolo con i sindacalisti e legislatori, come avvenuto nello Stato di New York, dove non è stato raggiunto alcun compromesso.

Quello della gig economy è un mercato in crescita esponenziale e una spinta notevole è arrivata dal Covid-19, che ha innescato una concorrenza sfrenata tra le app. Un fenomeno diffuso non soltanto negli Stati Uniti, dove i gig workers ammontano a milioni e un americano su dieci ha come entrata principale un reddito derivante da lavoro non tradizionale – che sia a chiamata, a contratto, freelance poco cambia – ma anche nel resto del mondo. In Italia, ad esempio, da una ricerca dell’Inapp (l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche) è emerso come i gig workers siano più di 213mila, di cui il 42% sprovvisti di contratto regolare e il 19,2% con in mano un contratto di collaborazione. Proprio sul tipo di contratto si era esposto il Tribunale di Bologna, ritendo illegittimo quello sottoscritto dalle principali app del settore del food delivery con il sindacato Ugl: con la sentenza, a inizio luglio Deliveroo si era vista imporre l’astensione dall’applicazione di questi accordi.

Lo scontro tra chi vuole modernizzare il mondo del lavoro in base alle nuove realtà (ed esigenze economiche) e chi, invece, punta i piedi sui diritti acquisiti nel corso degli anni si preannuncia ancora lungo. Molto passerà dalla raccolta firme in Massachusetts, che avrà il via libera qualora l’ufficio del procuratore generale non riscontrerà problemi di legittimità costituzionale nella proposta. Poi la palla passerà ai cittadini.

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