Zero progressi a due anni dal flop degli accordi di Malta. Intanto la crisi sul confine lituano, scatenata da Lukashenko come rappresaglia per le sanzioni, evidenzia la mancanza di un sistema europeo di risposta permanente
“Apprezziamo l’assistenza iniziale della Commissione per affrontare la migrazione irregolare organizzata in direzione dell’Europa attraverso il confine orientale dell’Ue”. Così la prima ministra lituana Ingrida Šimonytė ha commentato via Politico i 36 milioni di euro stanziati da Bruxelles per la costruzione di centri di accoglienza, l’assistenza medica e le procedure di richiesta d’asilo.
I fondi servono a far fronte all’emergenza migranti causata dal conflitto tra Occidente geopolitico e il dittatore bielorusso Alexander Lukashenko. Alle pressioni occidentali il batka ha risposto aprendo il confine con la Lituania per incoraggiare il flusso migratorio, mossa che gli ufficiali europei hanno più volte descritto come “un’iniziativa coordinata” di rappresaglia. “Quello che Lukashenko sta cercando di fare è destabilizzare l’Ue. E sta usando gli esseri umani per un atto di aggressione”, ha detto Ylva Johansson, commissaria europea per la migrazione e gli affari interni, al Financial Times.
Quasi tutti gli oltre 4.000 migranti irregolari arrivati in Lituania nel 2021 sono entrati a partire da giugno, poco dopo l’atto di pirateria aerea che ha portato all’arresto del dissidente Roman Protasevich e a un ulteriore round di sanzioni europee imposte sul regime di Lukashenko. “Per me c’è un chiaro legame tra le sanzioni e [le sue azioni] disperate”, ha detto Johansson. “Non ha più niente, se non la violenza. Sta cercando di minacciarci perché siamo stati duri sui diritti fondamentali, sul diritto del popolo bielorusso di avere elezioni libere ed eque… ma quando usi gli esseri umani, stai toccando il fondo”.
La vicenda sembra aver scosso diversi Paesi europei. I fondi sono dovuti anche a una lettera firmata da nove Stati membri, con la richiesta di rispondere adeguatamente alle tattiche di guerra ibrida (definite un “nuovo trend” geopolitico). I ministri europei dell’interno si riuniranno mercoledì prossimo per capire se attivare il meccanismo integrato di risposta politica alle crisi (IPCR), uno strumento nato in risposta agli attentati terroristici dei primi anni Duemila come piattaforma di intelligence sharing ed evolutosi in un sistema complesso di reazione europea.
L’IPCR prevede tre livelli di attivazione, ossia monitoraggio, condivisione di informazioni e attivazione completa, cosa che include “la preparazione di proposte d’azione” da sottoporre al Consiglio europeo (in cui siedono i capi di Stato dei 27 Paesi) o al Consiglio dell’Ue (un organo di coordinazione tra Stati membri). Nel 2015 il meccanismo fu attivato al secondo e terzo livello per fronteggiare la crisi migratoria ma non si rivelò uno strumento rivoluzionario – era fondamentalmente un consesso preferenziale per l’intelligence sharing – non portò ad alcun intervento diretto, né riuscì a dirigere la volontà politica dei 27 verso una strategia comune.
“Durante la crisi finanziaria, i membri dell’Ue si sono uniti per rafforzare l’unione monetaria attraverso nuovi potenti strumenti e hanno sacrificato il controllo sui loro sistemi bancari per salvare l’euro”, scrisse nel 2018 Stefan Lehne, analista di Carnegie Europe. “La risposta alla recente crisi dei rifugiati è stata esattamente l’opposto. Ricorrendo a misure nazionali, come i controlli alle frontiere o le recinzioni, per contenere l’afflusso di migranti e richiedenti asilo, gli Stati membri hanno scelto di sacrificare parte della funzionalità di Schengen piuttosto che limitare il loro processo decisionale nazionale in materia di migrazione e asilo. Questa logica di rinazionalizzazione, combinata con l’aumento della xenofobia e delle politiche identitarie in molti paesi dell’Ue, ora ostacola lo sviluppo di solidi strumenti collettivi per affrontare le sfide migratorie”.
Poco è cambiato da allora. L’accordo di Malta si proponeva di superare l’ormai vetusto regolamento di Dublino. Siglato a settembre 2019 da Italia, Germania, Francia e Malta, il patto di Malta portò alla creazione di un meccanismo automatico di gestione delle ondate migratorie con soluzioni come la riallocazione dei migranti e rotazione dei porti di sbarco, ma si trattava di una soluzione su base volontaria, a cui aderirono solamente una manciata di Stati e non prese mai piede a livello europeo. La pandemia arrivò poche settimane dopo e il discorso migrazione passò in secondo piano. Il “nuovo patto sulla migrazione e l’asilo” proposto dalla Commissione europea a settembre 2020 è ancora in fase di discussione e mancano riscontri positivi da parte del Consiglio e del Parlamento europei.
A fine giugno il premier Mario Draghi ha parlato di “gestione davvero europea” della migrazione, e pur accennando ai negoziati in corso sul nuovo patto comunitario ne ha anche evidenziato le difficoltà. Parte del suo discorso, che delineava la posizione italiana in Europa, verteva anche sull’espansione dei rapporti con i Paesi di origine. Negli scorsi anni l’Ue e i suoi Stati membri sono effettivamente diventati più efficienti nello stringere accordi con Paesi terzi e controllare il flusso migratorio, anche a fronte della mancata creazione di uno strumento più adeguato e comunitario per fronteggiare il fenomeno. Però gli ultimi avvenimenti in Lituania (come anche le criticità nell’operato della guardia costiera libica) mostrano chiaramente i limiti dell’affidarsi a un attore extraeuropeo.
Nonostante le esperienze passate l’Ue non è ancora attrezzata per gestire efficientemente il problema. Il mero fatto che la risposta europea alle provocazioni di Lukashenko sia attivare un dispositivo di crisi, peraltro non particolarmente efficiente, dovrebbe essere ragione sufficiente per ponderare la creazione di uno strumento di gestione di quello che altrimenti – complici l’instabilità in Africa e Medio Oriente e le migrazioni climatiche all’orizzonte – rischia di rimanere uno stato d’emergenza permanente.