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L’emirato 2.0 dei Talebani tra nuovi equilibri di potenza e contrasti ideologici

Di Giorgio Cella

L’analisi di Giorgio Cella, docente presso l’Università Cattolica di Milano e analista per Limes e Nato Foundation

Le iconiche immagini che arrivano da Kabul e dal suo aeroporto – stesse scene e dinamiche che chi scrive conosce bene, in quanto già viste e vissute in prima persona al Cairo con la rivoluzione egiziana nel 2011 – con modalità di ritiro così mal organizzate e disordinate, evidenziano una volta ancora la piega che l’ordine mondiale post-guerra fredda ha preso da un po’ di tempo a questa parte, con un occidente (leggi Stati Uniti) in volontario ripiegamento (sia materiale che figurativo) da diversi teatri, l’ultimo quello afgano. Ripiegamento a cui segue un disorientamento geopolitico sempre più forte di un’Europa per ora sostanzialmente ancora a traino di Washington. Un ripiegamento che non è certo un atto di volontà esclusiva dell’amministrazione Biden – quest’ultima se mai ne è stata la maldestra esecutrice materiale – in quanto esso rappresenta solo l’epilogo di una traiettoria strategica già adottata dalle amministrazioni precedenti e pienamente sostenuta dalla presidenza di Donald Trump, il quale decise per l’inizio dei negoziati con i talebani a Doha.

Un ripiegamento e una minore assertività di cui abbiamo già visto i precedenti davanti al minaccioso build-up militare russo sui confini ucraini di qualche mese fa. Analoga situazione di stallo si è verificata con il Venezuela, dove gli Stati Uniti di Trump non sono riusciti a far prevalere il fronte d’opposizione di Guaidó e a creare le condizioni per un regime change o, sempre rimanendo nel periodo della presidenza Trump, si ricordi dell’abbandono dei curdi da parte degli Stati Uniti di fronte all’avanzare della Turchia di Erdogan: situazione meno mediatizzata ma non troppo differente dall’abbandono odierno degli afgani a fronte dell’avanzata talebana.

Per rimanere in tema, le dichiarazioni di Mosca tra il serio e il sarcastico sulla debolezza dell’esercito afghano addestrato da Nato e Stati Uniti che si è praticamente dissolto davanti all’offensiva dei talebani, mette ulteriormente il dito nella piaga sulla fase di crisi strategica sostanziale dell’occidente. Nel suo discorso, Biden, oltre ad aver ammesso gli errori nella gestione pratica del ritiro e di non aver visto in tempo la caduta del paese in mano talebana (sulle ragioni pratiche della disfatta dell’esercito e del governo afghano ha già scritto recentemente su queste stesse pagine Germano Dottori) ha avuto toni e parole dettate da un chiaro, quasi cinico, pragmatismo politico – in netta contraddizione con la narrativa della strenua difesa dei diritti umani ovunque nel mondo -, ma in piena continuità di principi con la retorica del suo storico rivale repubblicano Trump: concetti pressoché sovrapponibili con la policy dell’America First. Un discorso comunque storico, spartiacque, che insieme all’indecoroso ritiro, potrebbe segnare la fine delle operazioni di esportazioni di democrazia di matrice neo-con – quantomeno a livello di principio – sigillando così la fine di un’era. I contraccolpi di tutto ciò – vent’anni di operazioni militari e di addestramento dell’esercito locale, con centinaia di morti anche dei paesi Nato e infinite risorse finanziarie per scoprire, da ultimo, che non c’è mai stato un reale obbiettivo di nation building – sull’Alleanza Atlantica, sulla sua coesione e sui rapporti transatlantici nel loro insieme non sono al momento pienamente ponderabili.

IL FUTURO GEOPOLITICO DELL’AFGHANISTAN 

In una sintetica quanto fattuale considerazione, c’è poco da sorprendersi. I talebani non sono piovuti dal cielo né l’hanno fatto in questi giorni. Il movimento degli studiosi coranici pashtun costituisce ormai una decennale presenza che si è dimostrata di estrema resilienza (per usare un termine che così tanto piace al nuovo lessico ammesso e accettato); una forza militare con elementi sia religiosi che nazionalisti (pensiamo ad esempio al principio del turah, ossia il coraggio-dovere di difendere la propria terra e l’onore, contenuto nel pashtunwali, il codice etico tribale proprio dell’etnia pashtun) che, come condivisibilmente lumeggiato di recente anche da Dario Fabbri della rivista Limes, gode altresì di un non irrilevante consenso interno: nessuna forza politico-militare, sia chiaro, può infatti ergersi alla guida di una nazione senza un minimo consenso nella popolazione.

Tornando alla cronaca di queste ore, è bene ricordare come il loro successo politico-militare sia figlio degli accordi di Doha siglati nel febbraio del 2020 tra Talebani e Stati Uniti, col sostegno di altre grandi potenze come Cina, Pakistan, Russia ed India. È per volontà e richiesta degli Stati Uniti, del resto, che l’attuale capofila dei Taliban, il mullah Abdul Ghani Baradar, fu scarcerato nel 2018.

Gli accordi di Doha in estrema sintesi prevedevano nei loro punti fondamentali il progressivo ma totale ritiro delle forze Nato e americane, l’impegno da parte dei Talebani di impedire e contrastare l’infiltrazione di gruppi terroristici islamisti come Al Qaeda e Daesh e l’inizio di colloqui con le élite del governo filoccidentale afgano, oggi già sfaldatesi e riparate all’estero. La mera denominazione di emirato suscita comprensibilmente in Occidente timore, ma forse in questo caso – come implicito anche dagli accordi di Doha tra Usa e Talebani di cui sopra – è auspicabile, e plausibile, che il regime degli studenti coranici non sia identico a quello di vent’anni fa o che si trasformi tassativamente in un centro del terrorismo internazionale. Certo, sussisteranno taluni elementi di rigidità coranica e di altre usanze legati al già citato pashtunwali – elementi shariatici del resto presenti in varie altre nazioni limitrofe, basti pensare all’Iran degli Ayatollah o all’Arabia Saudita – ma sia sul piano domestico che sul piano delle relazioni internazionali, c’è da auspicarsi che il nuovo regime starà (come invitato a fare sia da Mosca e Pechino al fine di ottenere un pieno riconoscimento) ad un tempo attento ad imporre regole sociali troppo estreme o letteraliste, e ad evitare situazioni di isolamento internazionale, creando invece relazioni e legami interstatali e cercando di fare affluire capitali e investimenti esteri, magari privilegiando plausibilmente potenze regionali che vantano una storica vicinanza politica e religiosa, come l’antico alleato pakistano, gli Emirati Arabi Uniti o l’Arabia Saudita.

Quest’ultimo, centro primario di riferimento per tutta la dar-al-Islam che, con il nuovo governo dei talebani, condivide sul piano valorial-religioso l’adesione piena ed assoluta all’Islam sunnita, concretizzata simbolicamente dal tawḥīd (unità e unicità di Dio), il più importante dei principi nella concezione monoteistica islamica, che campeggia infatti nella bandiera dei talebani come in quella della monarchia saudita. Oltre ai rapporti con le medie potenze regionali, il vulnus creato dalla ritirata americana verrà naturalmente colmato da altri attori geopolitici di primo piano, potrà esserlo la Cina? Quest’ultima – che potrebbe agire anche all’interno della Shanghai Cooperation Organisation in un iniziale allineamento diplomatico con Mosca, potenza per ora ancora determinante nelle dinamiche centro-asiatiche – ha indubbiamente le carte in regola per poter esercitare una discreta influenza politica ed economica sul futuro regime talebano (essendo Pechino anche alleato fondamentale del Pakistan) senza tuttavia applicare ingerenze dirette, men che meno manu militari: la lezione alla luce delle infernali avventure sostenute dai sovietici prima e dagli occidentali poi, sarà sicuramente fatta propria da Pechino, che guardando e studiando tali lezioni della storia contemporanea gode certamente di un vantaggio strategico comparativo.

Come potrebbero quindi i cinesi divenire la grande potenza di riferimento per il nuovo Afghanistan? In primis includendo il paese nel macro sistema della via della seta, modernizzando le malmesse infrastrutture e modernizzando i trasporti e la digitalizzazione del paese, ad un tempo mettendo le mani sulle ambite terre rare dell’Afghanistan e monitorando che il nuovo emirato d’Afghanistan non emani influenze nefaste di un Islam militante verso le tre repubbliche centro-asiatiche confinanti né, naturalmente, verso lo stesso tratto di confine che condivide con Pechino, con un occhio speciale alla già problematica regione a maggioranza islamica dello Xinjiang.

LA CRISI DEL SISTEMA VALORIALE 

Rispetto al solito profluvio di reazioni di vari esponenti politici e mediatici occidentali dettate dall’emotività del momento e spesso accompagnate da irrealistici idealismi – un continuo coro d’indignazione che tra l’altro al di fuori dell’occidente vengono lette come un segno di impotenza, nell’incapacità di fare seguire fatti concreti -, risulta di difficile comprensione questo stracciarsi le vesti, visto che la regione è già costellata di regimi autocratici e-o dittatoriali (si pensi all’Asia Centrale e al Turkmenistan ad esempio) o di chiara matrice teocratica, come l’Iran – che, malgrado ciò, intrattiene relazioni diplomatiche regolari con moltissime nazioni – o alla stessa Arabia Saudita la quale, nonostante qualche apertura, mantiene sempre sul piano statuale e sociale chiari connotati clericali e autocratici. Venendo a considerazioni di carattere più generale invece, in occidente, per non parlare dell’Italia – oltre alle innumerevoli sciocchezze dell’uomo della strada che ormai, galvanizzato dai social media, non si ferma più alle discussioni calcistiche ma si permette di discettare financo sulle varie crisi geopolitiche – ad ogni evento percepito in qualche modo spaventoso o contrario a un certo tipo di visione, si assiste ad una quasi automatica, sistematica indignazione mediatica mista a un ostracismo che non aiuta certamente a una maggiore comprensione di tali eventi.

Se la presa di potere di un movimento come quello dei talebani in Afghanistan non può essere certamente vista positivamente, si deve però ad un tempo considerare in primo luogo la formazione di governi sgraditi in un’ottica realista, quindi come una realtà del sistema internazionale: atteggiamento pragmatico abbracciato sovente da Russia e Cina, e in questo caso altresì degli stessi americani, in quanto negoziatori diretti con il movimento talebano negli accordi di Doha. Si deve poi considerare come tali reazioni e indignazioni siano anche figlie di quello che è divenuto una sorta di credo valoriale universalista ultraliberale eurocentrico, che abbiamo imparato non essere sempre adattabile a realtà extra-occidentali. Una visione a volte imposta con poca sensibilità e riguardo verso le culture e tradizioni locali che, dopo le drammatiche scene dall’aeroporto di Kabul e il sostanziale tradimento degli afgani che avevano creduto in un cambio in senso più libertario e democratico, diverrà oggi meno credibile e più difficilmente imponibile o proiettabile al di fuori dei perimetri occidentali. Per l’avvenire, credo quindi che un combinato disposto che metta sempre al centro la difesa dei diritti umani ma accompagnata da un approccio più realista e di un’aumentata sensibilità verso le dimensioni riguardanti l’ethos, la società, la cultura e la religione locale di realtà extra-occidentali, costituirebbe per l’occidente e la sua proiezione globale un più realistico e spendibile compromesso in termini di soft power.

RUOLO DELLA FEDERAZIONE RUSSA 

Da un lato la Russia difficilmente potrà avere grandi ambizioni per l’Afghanistan, visto il passato storico, e viste anche la situazione finanziaria della Federazione in questo frangente, già del resto ben occupata a monitorare situazioni a lei ancora più prossime e di rilievo, come Donbass, Siria, Libia e Nagorno Karabakh. Dall’altro lato, non potrà però trascurare le questioni strategiche e di sicurezza che concernono il futuro del paese centro-asiatico, anche perché come ho già avuto modo di sottolineare più volte in passato, alla politica estera di Mosca, alla luce della comunità islamica russa sempre più cospicua, non conviene ignorare, trascurare o ancor meno ostracizzare realtà islamiche geograficamente prossime ai suoi confini. L’atteggiamento russo sinora non può che essere attendista: le dichiarazioni di Lavrov – con solito piglio pragmatico – lasciano intuire una prossima apertura e riconoscimento di Mosca verso il nuovo governo dei Talebani, il cui sostegno sarà vincolato al comportamento e alla condotta che mostrerà. Si ricordi che l’ambasciata russa è una delle poche che è rimasta aperta e funzionante in queste difficili giornate. Non credo che nella mente dei diplomatici e degli analisti strategici russi, sia molto lontano il tetro ricordo di quando l’auto proclamato Emirato del Caucaso con epicentro la Cecenia indipendente, fu una delle poche realtà (pseudo)statuali a riconoscersi reciprocamente con il governo dei talebani sorto nel ‘96.

Al Cremlino è chiaro, dunque, come lo è per Pechino, che non dovrà esserci nessun tentativo di rilancio di modalità espansive di un Islam militante, che potrebbe riaccendere incendi estinti ma potenzialmente latenti, nel Caucaso settentrionale e non solo. In questo caso, di nuovo per la Russia così come per la Cina e altre eventuali potenze che vorranno o dovranno occuparsi della stabilità in Afghanistan, è chiaro che, nel caso non si riesca ad avviare quell’auspicata cooperazione con il nuovo governo degli studenti del corano, si tenterà di finanziare gruppi rivali afgani (leggi Panjshir – Alleanza del Nord) per controbilanciare la presenza talebana nel paese. Questa è un’opzione che, rebus sic stantibus, parrebbe comunque debole – per via della conquista di gran parte del territorio da parte dei talebani e per il fatto che ciò equivarrebbe ad una nuova, ulteriore fase di instabilità se non guerra civile nel paese – sebbene non impossibile: più plausibile invece parrebbe invece il tentativo di reindirizzare il nuovo fronte talebano in chiave anti-terroristica, in qualche modo allineato a Pakistan, Cina e Russia (Shanghai Cooperation Organization): non scordiamoci infatti della nefasta presenza dell’ISIS anche sul territorio afgano, che cercherà sicuramente di insidiarsi in momenti di grande caos e di crisi umanitarie come quelle a cui il paese andrà incontro, quantomeno nelle prossime settimane-mesi. La questione di nuovi flussi di sfollati e rifugiati, ad esempio, potrebbe creare ulteriori esternalità negative per la sicurezza in Europa, divenendo, eventualmente, nelle mani di Stati come per esempio Turchia e Bielorussia, un nuovo strumento di pressione riversabile sui confini europei.

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