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Phisikk du role – Democrazia, Afghanistan e l’economia dell’oppio

Forse hanno ragione quegli osservatori che hanno studiato la storia e l’economia di quel quadrante del mondo quando dicono: “Volete risolvere il problema dell’Afghanistan? Semplice: bombardate i campi di oppio e piantate zucchine e meloni”. La rubrica di Pino Pisicchio

Secondo il rating dell’Economist che ogni anno misura l’indice di democrazia presente in 167 Paesi del globo terraqueo, solo il 5,7% degli Stati può essere catalogato nella prima fascia, quella della democrazia piena. Il 35%, invece è in una condizione di regime autoritario. In mezzo le democrazie imperfette e i regimi ibridi.

L’autoritarismo caratterizza i Paesi dove il pluralismo politico è assente o limitato, dove allignano dittature, spesso sanguinarie. Talvolta in questi regimi ci può anche scorgere qualche fievole presenza di istituzioni che in altri contesti sarebbero parte di una democrazia, ma si tratta solo di tromp l’oeil: le violazioni e gli abusi delle libertà civili sono così numerosi e frequenti da revocarne in dubbio ogni parvenza. E lo stesso si dica per le elezioni, l’autonomia e l’indipendenza dei media, la magistratura, la mannaia della censura. Il conto di Democracy Index fa riferimento a 58 Stati di questo tipo.

Ogni volta che al mondo occidentale gli vien voglia di andare ad esportare la liberaldemocrazia (e la way of life degli yankee con l’Europa al seguito) varrebbe la pena, prima di tutto, domandarsi perché lì e non negli altri 57 posti dove i diritti umani vengono stracciati in modo altrettanto violento. L’Afghanistan, anche se Biden dice oggi che non è così, è stato uno di quei posti. Così come lo fu il Vietnam, la Libia eccetera, eccetera, eccetera. Il dramma è in pieno svolgimento, con derive orrorifiche in favore delle tv occidentali, all’aeroporto di Kabul, dove migliaia di poveracci, che all’occidente “portatore di democrazia” avevano creduto, vengono abbandonati nelle mani dei talebani. Quelli stessi di Osama Bin Laden. Vent’anni dopo. La ricerca vana di un appiglio sulla carlinga liscia dell’aereo americano che decolla è la sintesi in una tela iperrealista del dramma senza requie e di un popolo senza speranza.

I giornali e I tiggi’ fanno le copertine e le prime pagine con tutto quello che può raccontare la situazione afghana e sulle prospettive, con dovizia di commenti di esperti e di giaculatorie dei capi di stato sulla promessa di portare via nella fuga dalla capitale, insieme ai diplomatici, anche gli amici afghani. Notevole, nella preghiera di cortesia, la raccomandazione ai nuovi padroni talebani di rispettare i diritti delle donne. State sicuri che sarà la prima preoccupazione del nuovo governo… nel rispetto della Sharia, naturalmente.

Una cosa non abbiamo, però, ancora potuto leggere che avesse l’ambizione di un approfondimento, ed è un accenno all’economia di questo Paese, poverissimo eppure in grado di trarre dall’oppio lucri immensi. L’oppio è una risorsa a cui hanno attinto nei lunghi anni della “presenza di pace” delle forze occidentali, e continuano ad attingere a mani pienissime, proprio i talebani. Per comprenderci meglio: l’Afghanistan, soprattutto nella regione dell’Helmand sotto il controllo talebano dal 2002, è la terra promessa dell’oppio e dei suoi illegali derivati. I campi di papaveri, infatti, fanno di questo Paese che gratta il fondo della classifica di ogni povertà il primo produttore al mondo di oppio: il 90% dell’eroina che circola nel pianeta nasce dalle capsule acerbe del papaver somniferum coltivati in quest’area, la più talebana da sempre.

Per rendere intensivo lo sfruttamento nell’Helmand sono state adottati, nella maggior parte delle coltivazioni, pannelli solari modernissimi che hanno portato a triplicare la produzione, garantendo così la moltiplicazione degli introiti ricavati dalla vendita della materia prima per la produzione degli stupefacenti distribuiti negli USA, in Europa, in Russia, in Cina. Chi, oltre le mafie internazionali, mette in cassa questo fiume di denaro non sono certamente i contadini di questa remota parte di mondo. La domanda, forse retorica, sorge spontanea: che abbiamo fatto noi “portatori di democrazia” tutto questo tempo in Afghanistan? Mai a dare un’occhiata a quegli orticelli colorati?

Forse hanno ragione quegli osservatori che hanno studiato la storia e l’economia di quel quadrante del mondo quando dicono: “Volete risolvere il problema dell’Afghanistan? Semplice: bombardate i campi di oppio e piantate zucchine e meloni”. Come diceva Massimo Troisi: segnamocelo, così la prossima volta stiamo più attenti…


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