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Santori, il Pd e quel buon populismo da Sardine. Riflessioni di un elettore di destra

Di Antonio Pellegrino

Attirare nuovo potenziale elettorato con slogan di facile comprensione capaci di muovere fisicamente qualche migliaio di liceali, costruire roccaforti mediatiche e tentare di reggere un’agenda politica vacua quanto quella dall’altra parte della barricata. Manuale dai populisti buoni del Pd. Il commento di Antonio Pellegrino

Sparare sulla croce rossa è un tranello rischioso, specie quando determinati personaggi, avvenimenti o prese di posizione ne facilitano la riuscita. È questo il caso della candidatura di Mattia Santori nelle liste del Partito democratico di Bologna, notizia che negli ultimi giorni ha provocato l’ilarità (o l’imbarazzo, a seconda dei casi) degli appassionati del settore – solo il loro dato che il grande pubblico ha già dimenticato questo movimento di popolo che appena due anni fa sembrava dover scardinare il sistema dalle fondamenta, l’ennesimo di una lunga lista.

Senza scadere in attacchi ad personam verso l’attivista bolognese, a interessarci è l’offerta politica del suo gruppo per il quale ha fatto da perfetto portavoce e agnello sacrificale addossandosi, con uscite già celebri, la loro totale assenza di contenuto. Nate all’insegna dell’argomentazione più alta degli ultimi anni, “Matteo Salvini è cattivo”, le Sardine rispondevano a chi li accusava di essere l’emanazione di piazza del Partito democratico rivendicando indipendenza e purezza ideale, sui loro cartelli capeggiava fiera la scritta “siamo senza partito” e questo particolare aveva il potenziale di rendere ancora più comica l’annunciata candidatura di Santori, se non fosse stato ovvio sin da subito il loro reale obbiettivo; del resto non sono comparsi quando la Lega era al governo ma in concomitanza con le elezioni regionali in Emilia-Romagna.

Questi dettagli però, non interessano a chi è sceso in piazza con loro che ha subito trovato rifugio in una nuova sigla che rispondesse alle esigenze collettive del momento. Dopo la minaccia Salvini c’è stata quella ambientale combattuta dai Fridays for future, dopodiché quella del razzismo affrontata dai Black lives matter italiani e andando a ritroso ritroviamo nomi che sostituiscono e annullano quelli dell’anno precedente come le Non una di meno, il Popolo viola fino agli Indignados e ancora oltre.

Agendo lungo la stessa linea, le Sardine sono solo l’ennesimo esempio di una costante del movimentismo degli ultimi anni: la banalità e la sua facile attrattiva. La banalità sta nella scelta del nemico, nelle parole d’ordine e nella fruibilità delle battaglie che più semplici sono più persone possono attrarre a sé, lo hanno capito bene a sinistra dove si usa questo escamotage per coniugare il bisogno di presenza territoriale alla retorica dell’anti-populismo. Non è populismo se fatto per giusta causa, così gli stessi che accusano l’avversario di involgarire il dibattito lo fanno a loro modo con scelte comunicative diverse, un populismo più ricercato e soprattutto più presentabile che si nutre di una narrativa fatta di buoni contro cattivi, cultura contro ignoranza e che fomenta un conflitto generazionale trito e ritrito dove i giovani diventano lo strumento per la sopravvivenza di un’intera area politica. Da buoni populisti si cerca di attirare il nuovo potenziale elettorato con slogan di facile comprensione capaci di muovere fisicamente qualche migliaio di liceali, costruire roccaforti mediatiche e tentare di reggere un’agenda politica vacua quanto quella dall’altra parte della barricata.

È un meccanismo collaudato nel tempo, da quando il termine “diritto civile” ha perso la sua connotazione giuridica per diventare un ossessivo intercalare nel dibattito pubblico, con i suoi pro e i suoi anti. Il diritto civile, nella sua accezione di tema etico progressista, è una facile soluzione per trovare sostenitori tra chi è disinteressato alla politica, lo è per la semplicità con il quale arriva alla massa e per la sua natura facilmente condivisibile.

Per comprendere il meccanismo basta vedere la diversa risposta ai due referendum radicali su eutanasia e giustizia (chi scrive li sostiene entrambi), il primo pubblicizzato dalla quasi totalità degli influencer e che già ha superato il mezzo milione di firme, il secondo ignorato dalla fascia giovanile e a breve lasciato in mano alla sola Lega – non servono grandi analisi per capire che il primo va avanti per la sua natura più accessibile e il secondo pecca di specificità tecnico-politica, ma basta questo rapporto per avere una chiara radiografia dei limiti di questo attivismo giovanile. Se la politica diventa più complicata si perde interesse, e per alcuni fa comodo così. Chi per anni ha macinato consensi sulla retorica dell’analfabeta funzionale è il primo a temere l’alfabetizzazione politica perché potrebbe farglieli perdere, si preferisce così la situazione attuale di polarizzazione e ignoranza politica che quando è in mano agli avversari bisogna essere i primi a biasimare, quando avvantaggia la sinistra diventa una tacita arma, ma ricordiamo è populismo solo quando si tratta degli altri.

Non è populista il nuovo corso di Enrico Letta che, eletto segretario, rimprovera chi lo ha votato di aver scelto lui e non una donna. Non è populista Pippo Civati quando condivide e si fa condividere da pagine di meme, sperando di rendersi appetibile alla generazione Z. Non sono populisti i post con la schwa, i seminari sulla grassofobia e tutti i tentativi di importare la narrativa woke (calderone col quale identificare tutte le questioni progressiste anglosassoni) in un Paese diverso, ignorandone le specificità culturali.

Garantire la sopravvivenza di un’area politica a scapito del senso del ridicolo può portare attenzione e risultati nel breve termine, ma a lungo andare non fa che produrre terra bruciata e le conseguenze le pagheranno non solo i partiti coinvolti, sempre più distaccati dalla realtà e dal contesto nazionale, ma gli stessi ragazzi che si vuole ridurre a tifosi con la bava alla bocca, nella sostanza non diversi dallo zio no-vax che delira su Facebook.

Di fronte a tutto questo, la candidatura di Santori sembra essere la scelta più coerente espressa dal Partito democratico che anche questa volta è riuscito a far parlare di sé. A questo punto la sola Bologna è solo una perdita di tempo, rompete gli indugi e fatelo premier.


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