Il generale Marco Bertolini, già comandante dell’operazione Nibbio (l’intervento italiano a Enduring Freedom) e primo italiano a ricoprire la carica di capo di Stato maggiore del Comando Isaf, riflette sugli effetti che il ritiro dall’Afghanistan avrà in Occidente e, in particolare, in Italia
La sorprendente velocità con la quale i talebani hanno completato la rioccupazione dell’Afghanistan fino alla capitale Kabul ha innescato molte reazioni, tutte a loro volta sorprendenti. Il presidente americano, Joe Biden, ha dovuto metterci la faccia in un paio di conferenze stampa affermando, in sostanza, che gli obiettivi dell’operazione Usa erano stati già conseguiti con l’eliminazione responsabili dell’11 settembre 2001, per cui era giusto concluderla. Si sarebbe trattato, insomma, di una operazione di contro terrorismo (Ct) e non di contro insurrezione (Coin) visto che, a sentire lui, non c’era mai stata alcuna velleità di trasformare l’Afghanistan in una democrazia compiuta. Un’ardita smentita, insomma, di una lunga guerra nella quale gli Usa hanno guidato la Nato al fianco del governo afghano in un mix di attività cinetiche contro i talebani ma non solo: operazioni di indirizzo dei governatori locali e delle istituzioni politiche centrali, supporto alle attività di eradicazione del papavero da oppio, riorganizzazione dell’esercito e della polizia, nonché la tenuta di elezioni presidenziali nelle quali il candidato vincente era costantemente rappresentato da personaggi con importanti trascorsi statunitensi e internazionali (Hamid Karzai prima e Ashraf Ghani poi). Particolarmente ingeneroso è sembrato il tentativo di addossare all’esercito locale la colpa di non avere combattuto, in una specie di riedizione afghana del nostro 8 settembre nella quale, però, al repentino venir meno del re e di Badoglio ha corrisposto l’improvvisa eclissi di quello che per gli afghani era il vero governo di fatto, estraneo in quanto occidentale ma puntello indispensabile per quello locale.
Anche i talebani hanno dato prova di una inattesa verve mediatica, con una conferenza stampa dall’ex palazzo presidenziale, appena abbandonato da Ghani, dai toni sorprendentemente pacati ai quali non hanno creduto in molti. Chi si aspettava un approccio truculento e intollerante è stato spiazzato dalle rassicurazioni sull’istruzione anche femminile, sulla sufficienza del modesto hijab al posto dell’orribile burka, nonché sul rispetto degli stranieri e dei diplomatici; il tutto, da parte di personaggi dai folti barboni e dagli ingombranti turbanti, ma tutti con l’abito della festa e attorniati da miliziani che esibivano un atteggiamento ben diverso da quello dei tempi del mullah Mohammed Omar. Che qualcuno abbia notato il modo decisamente “occidentale” di maneggiare le armi da parte di alcuni dei loro guardaspalle non deve sorprendere, visto che in questi vent’anni anche loro si sono addestrati, guardando la corposa cinematografia statunitense sul tema e magari frequentando i corsi tenuti dalla Nato. Che tra di essi non vi siano solo duri e puri della prim’ora, ma anche talebani del giorno dopo – del 26 aprile per prendere in prestito un’altra data della nostra storia nazionale – è assolutamente probabile. Soprattutto, infine, ha sorpreso il regime di sostanziale anarchia che viene ancora consentito all’aeroporto di Kabul, raggiunto da torme di afghani disperati in cerca di scampo fuori dal Paese, anche a costo di aggrapparsi ai carrelli degli aerei militari in partenza. Certamente, però, si avvicina il momento della “normalizzazione” con l’uscita degli ultimi occidentali e dobbiamo prepararci ad altri comportamenti.
Anche la Nato, spiazzata dal veloce evolvere del dramma, per bocca del segretario generale, Jens Stoltenberg, si è a sua volta prodotta in una condanna dell’arrendevolezza delle forze locali e nell’assicurazione sulla vigilanza dei diritti umani. Su quest’ultimo punto c’è però da chiedersi come reagirà in caso di inadempienze, se con un’altra impossibile invasione o con l’imposizione di sanzioni che si scaricherebbero sulla popolazione come già avvenuto in Iraq ai tempi di Saddam Hussein e come avviene oggi nella Siria di Bashar al-Assad. In ogni caso, è difficile che in quell’area non si presentino altri volenterosi più o meno interessati per sopperire col loro aiuto a quello negato dall’Occidente. Comunque sia, il ruolo che l’Alleanza si era ricavata dopo la fine della Guerra fredda e con l’inizio delle “operazioni di pace”, esce fortemente incrinato da questo insuccesso.
Da parte europea, invece, si sono fatti sentire soprattutto i governi, alternando a seconda dei casi disponibilità ad accogliere i profughi e chiusura di fronte alla possibilità di flussi consistenti. In ordine sparso insomma, come dimostrato da dieci anni di immigrazione incontrastata dalla Libia. A casa nostra.
In Italia, infine, l’esercizio dell’indignazione a comando sul ritorno “dell’oscurantismo talebano” ha dato voce a quanti per due decenni si sono accontentati di delegare ai soli militari un’operazione che non destava entusiasmi in nessuno schieramento politico. E questo, mentre in patria non ci si peritava di distogliere i “reduci” di quel teatro dal fondamentale compito dell’addestramento per impiegarli in avvilenti e inutili piantonamenti delle stazioni della metro nell’operazione Strade sicure. Operazione con la quale si è voluta sancire una sorta di incredibile subordinazione concettuale delle Forze armate dalle Forze dell’ordine, in ossequio al mito di una nostra criminalità e corruzione innata che rappresenterebbe il nostro nemico principale. Bugia pelosa, penosa e suicida. Ma ci si è anche esercitati in un ardimentoso voltafaccia da parte di quanti inizialmente si attribuivano l’incredibile merito di avere ottenuto il ritiro dei nostri soldati, per poi lamentarsi del fatto che è stato frettoloso, cianciando di “corridoi umanitari” come se si trattasse di magici portali per il teletrasporto e non di strutture basate su aeroporti, strade, collegamenti che non possono prescindere dal permesso delle autorità interessate: che ora hanno barba e turbante. O dalla loro realizzazione e presidio “manu militari”.
In ogni caso, si può almeno sperare che la conclusione ingloriosa di questa lunga operazione possa servire a farci ripensare alla nostra Difesa, da troppi anni vittima di trascuratezze e ridimensionamenti, soprattutto a danno dell’Esercito, che il futuro che sta facendo capolino potrebbe non perdonarci.
Ma da un punto di vista più generale quello che è certo è che la crisi di credibilità con la quale gli Usa, la Nato e l’Occidente concludono la loro lunga parabola afghana non sarà indolore. Il vuoto lasciato potrebbe essere riempito da altri interlocutori, che già ora scaldano i motori, a partire dalla Cina, ma anche da Russia, Pakistan e Turchia. Mentre quest’ultima ha già dimostrato di guardare all’Asia centrale come a una sua naturale area di influenza (a prescindere dalla propria appartenenza alla Nato), la prima potrebbe sentirsi incoraggiata a innalzare i termini dello scontro su Taiwan, contando su un ulteriore disimpegno americano da un’isola che da sempre considera sua. Ma anche in Europa e Medio Oriente crisi come quella ucraina e siriana potrebbero lasciare spazio a escalation politiche e forse militari difficili da controllare e comunque pericolose, in considerazione della possibile tentazione Usa di ribaltare con una prova muscolare una immagine ammaccata dal disastro di Kabul. Un serio dialogo euro-atlantico, che prevenga reazioni fuori misura e che non escluda la Russia, è per questo indispensabile e fa ben sperare l’iniziativa di un G20 per trattare dell’azione diretta a ricostruire la stabilità dell’Afghanistan. Il coinvolgimento di Vladimir Putin mediante una telefonata da parte del presidente del Consiglio, Mario Draghi, è quindi un ottimo segnale in tal senso. Ora è il momento della prudenza, infatti, rinunciando alla grancassa della retorica dei diritti negati, dagli “altri” naturalmente, per ricostruire un clima di collaborazione internazionale indispensabile.