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Anti-delocalizzazioni o anti-imprese? Scrive l’avv. Fava

Di Gabriele Fava

È sì doveroso che le imprese che decidano di delocalizzare forniscano spiegazioni e restituiscano i fondi pubblici eventualmente ottenuti; tuttavia, è opportuno che il legislatore persegua tale intento senza pregiudicare la libertà d’impresa e, con essa, gli investimenti esteri. Il commento di Gabriele Fava, avvocato giuslavorista e componente del Consiglio di presidenza della Corte dei Conti

Circolata nel corso delle ultime settimane e in arrivo sul tavolo del Consiglio dei ministri a seguito della pausa estiva, la bozza del decreto-legge anti-delocalizzazioni è già al centro del dibattito tra giuslavoristi e non solo.

Detto provvedimento, volto a contrastare la delocalizzazione delle imprese e, con essa, le ricadute sul piano occupazionale e produttivo, è rivolto a quelle aziende con almeno 250 dipendenti a tempo indeterminato che intendano procedere alla chiusura di un sito produttivo situato nel territorio nazionale con cessazione definitiva dell’attività, a fronte di ragioni non determinate da squilibrio economico-finanziario che ne renda probabile la crisi o l’insolvenza.

Per far ciò, la bozza del decreto pone in capo alle imprese che decidano di chiudere una serie di oneri burocratici di non scarsa rilevanza. Si va dall’obbligo di presentazione di un “piano per limitare le ricadute occupazionali ed economiche derivanti dalla chiusura del sito produttivo” presso il ministero dello Sviluppo Economico nonché all’obbligo di informare del progetto di chiusura del sito produttivo il ministero del Lavoro, il ministero dello Sviluppo Economico, l’Anpal, la Regione nel cui territorio è ubicato il sito da chiudere, le Rsa e le associazioni di categoria.

Le misure predisposte dal provvedimento in esame, tra l’altro, risultano sorrette da un impianto sanzionatorio degno di nota. Infatti, in caso di mancata presentazione o approvazione del piano, l’impresa interessata è tenuta a versare per ogni risoluzione di rapporto di lavoro un ticket licenziamento in misura incrementata di dieci volte e alla stessa è precluso l’accesso a contributi, finanziamenti o sovvenzioni pubbliche per un periodo pari a cinque anni.

Già da una prima lettura della bozza del decreto, emerge sin da subito come il provvedimento in esame – lungi dal rispondere alle attuali esigenze del tessuto imprenditoriale italiano – ponga in capo alle imprese oneri ulteriori, difficilmente giustificabili alla luce dell’attuale contesto economico e produttivo.

Infatti, occorre sin d’ora sottolineare come le imprese, allo stato attuale, necessitino perlopiù di strumenti utili a favorirne la crescita e, con essa, in grado di rendere maggiormente agibile e flessibile l’assunzione di personale da parte delle stesse. Va da sé come ulteriori misure volte a precluderne ulteriormente la libertà di iniziativa economica appaiono anacronistiche e non al passo coi tempi, ponendo in essere un’ulteriore stretta a scapito sia dell’impresa che dei lavoratori stessi. Passando poi in rassegna le singole disposizioni contenute nella bozza del provvedimento in esame, è evidente come saranno ancora una volta le imprese di medie dimensioni a sortire maggiormente gli effetti delle misure in esso contenute.

Infatti, se l’intento del provvedimento è quello di impedire, sulla scia di alcune esperienze verificatesi in concreto, l’intento di speculazione seguito da alcune multinazionali che decidono di aprire in Italia per un breve arco temporale al solo fine di godere di alcune agevolazioni, al contrario, per le imprese di medie dimensioni la delocalizzazione riveste carattere di necessità tanto da risultare maggiormente sensibili all’iter burocratico – nonché all’apparato sanzionatorio – previsto dalla bozza di decreto. A ciò si aggiunga un’ulteriore considerazione non trascurabile: tali misure sortirebbero l’effetto finale di contrarre ulteriormente gli investimenti in Italia da parte delle aziende estere. Va da sé come gli adempimenti burocratici e i costi ad essi connessi spingerebbero le imprese d’oltralpe ad investire altrove, segnando un drastico calo della competitività per il mercato italiano.

È sì doveroso che le imprese che decidano di delocalizzare forniscano spiegazioni e restituiscano i fondi pubblici eventualmente ottenuti; tuttavia, è opportuno che il legislatore persegua tale intento senza pregiudicare la libertà d’impresa e, con essa, gli investimenti esteri. Ed è proprio su tali ultimi aspetti che la bozza del decreto anti-delocalizzazioni non dimostra il corretto approccio, finendo per porre in essere l’ennesima (e non giustificabile) stretta contro le imprese.

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