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Nel nome del figlio. L’India limita le nascite per motivi politici e religiosi

In vista delle prossime elezioni in India, i leader conservatori promuovo progetti di legge per il controllo delle nascite. Ma dietro a queste iniziative c’è anche una strategia contro la popolazione musulmana, in continua crescita. Numeri, previsioni e critiche

Era il 2015 quando la formazione politica indiana, Shiv Sena, importante partito induista alleato del Bharatiya Janata Party (Bjp), promosse la pianificazione familiare dei musulmani in India, che altrimenti avrebbe “superato quella del Pakistan o dell’Indonesia”, avvertivano.

Secondo Shiv Sena, questo rischiava di trasformarsi in una ferita per la cultura e la società della nazione indù. In quelle settimane, il vicepresidente del partito nazionalista induista Mahasabha, Sadhvi Deva Thakur, chiedeva formalmente – e in maniera esplicita – la sterilizzazione di cattolici e musulmani.

Sebbene l’aumento della popolazione (specialmente musulmana) è diventato un problema demografico per l’India, dietro a queste iniziative si celavano attacchi diretti contro le minoranze religiose.

Le proiezioni delle Nazioni Unite indicano che l’India supererà la Cina come il paese più popoloso del mondo nel 2027. Ma mentre in Cina le restrizioni sulle nascite sono state revocate, in India aumenta ancora la pressione per fare “famiglie più piccole”, con massimo due bambini. Come si legge sul quotidiano The Washington Post, molti critici vedono un “velato tentativo di mobilitare gli elettori induisti, sottolineando il fatto che la popolazione musulmana sta andando fuori controllo”.

L’India si avvia verso il voto nello stato Uttar Pradesh all’inizio del 2022 e i progetti di legge sul controllo demografico introdotti dalla maggioranza guidata dal Bjp sono diventati un nuovo punto di dibattito nazionale, accendendo gli scontri su questioni di religione e identità. Anche nello stato dell’Assam, i leader del Bjp hanno proposto una normativa che vieterebbe a chi ha più di due figli di lavorare nel settore pubblico o ottenere sussidi (inclusi quelli alimentari), per disincentivare le nascite.

“Le iniziative, arrivate sette mesi prima delle elezioni statali dell’Uttar Pradesh, sembrano un inconfondibile cenno alle preoccupazioni di un movimento politico indù conservatore che cerca di garantire che l’India, dopo secoli di dominio musulmano e britannico, resti uno Stato con una sicura maggioranza indù e un carattere distintamente indù”, conclude il Washington Post.

Ma davvero i numeri sono preoccupanti? Negli anni ‘50, la donna indiana aveva in media sei figli. Il tasso è sceso drasticamente a circa 2,2 oggi, appena al di sopra di quanto è necessario per mantenere stabile la popolazione.

Dal 2011, gli indù sono scesi all’80%, rispetto all’84% nel 1951, mentre i musulmani sono aumentati dal 10% al 14,2%. Un sondaggio del 2016 sostiene che questa situazione genera preoccupazione nella popolazione.

Ashutosh Varshney, direttore del Center for Contemporary South Asia alla Brown University, ha spiegato al Washington Post che i timori che i musulmani sorpassino gli indù è un tema “nazionalista spesso articolato che ha acquisito una nuova ferocia […] Non è molto diverso dall’ansia dei bianchi americani di diventare una minoranza demografica negli Stati Uniti. In America, il problema è l’immigrazione. In India, il problema sono i tassi di fertilità”.



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