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Il caso Expo 2015 e la logica dell’eccezione che non piace alla Cgil

Maggiore flessibilità sui contratti a termine per le aziende che lavoreranno con Expò 2015 per almeno 3 anni. Questa è la richiesta che sale dal mondo delle imprese verso il Governo e che ha visto l’immediata reazione contraria da parte della Cgil, ma anche della Cisl che ha chiesto una convocazione delle parti al Ministro del lavoro, avvenuta eri. In sostanza, le aziende chiedono una sorta di deroga alla regola generale sui contratti a termine che prevede l’indicazione obbligatoria della causale, dopo il primo contratto stipulato con il lavoratore (prima della riforma Fornero, la causale andava indicata anche nel primo contratto sottoscritto), è una “pausa” tra un contratto e l’altro di 5 giorni. La questione della cosiddetta a-casualità di questo tipo di contratto, è uno dei punti di continua discussione intorno al confronto sul suo utilizzo. Al contratto a termine, infatti, si può ricorrere sole in alcuni casi specifici indicati dalla legge e per un massimo del 30 per cento della forza lavoro.

Ci sono situazioni, tuttavia, in cui tale assunto della legge è derogato. Un caso tipico riguarda i casi di strat up e di nuove iniziative imprenditoriali. In queste circostanze, infatti, è previsto che nel primo anno di attività tutte le assunzioni possono essere a termine, previo accordo sindacale, per poi giungere nei 3 anni gradualmente ad un rapporto riequilibrato che prevede, a regime, il 70% degli assunti con un contratto a tempo indeterminato e il restante 30% con contratto a termine. Ci sono, quindi, delle situazioni in cui l’eccezione è ammessa per ovvie ragioni. Anche per i contratti in somministrazione sono previste deroghe alla regola sulle causali e ai limiti di assunzione con questo contratto, in alcune specifiche situazioni.

Perché nel caso dell’Expò 2015 non si configurerebbe una situazione di eccezionalità? Eppure, stiamo parlando di un evento circoscritto nel tempo.  E’ pensabile che un aumento delle attività legate ad un periodo delimitato possa essere affrontato dalle aziende con un contratto a tempo indeterminato? Evidentemente è tutta qui la questione. Accettare l’eccezionalità dell’Expò 2015 potrebbe evitare guai peggiori, come l’esplosione del lavoro nero oppure di forme contrattuali improprie e di una ricerca di percorsi di flessibilità non tutelata. E’ questa l’unica conseguenza alla quale porterebbe la rigidità del sindacalismo radicale e ad una elevata conflittualità tra azienda e lavoratori nella fase post evento.  Non altro.  Il principio sarebbe salvo, se prevalesse la posizione della Cgil, ma le conseguenze sul lavoro sarebbero peggiorative. Cosa conta di più?

La ragionevolezza dovrebbe prevalere. Non è più tempo di battaglie di pura testimonianza arroccata di un principio o di un valore. Quello che serve, oggi, è il lavoro tutelato e non il lavoro idealizzato.

In realtà, la questione è diventata più complicata perché il fronte delle imprese chiede la deroga, non solo per le aziende che lavoreranno per Expò 2015, ma per tutte. C’è anche chi, vedi Assolombarda, chiede che queste deroghe diventino la regola. Qui la questione si è ingarbugliata, tant’è vero che anche la Cisl e la Uil hanno dovuto porre un loro veto “tattico” che lascia trasparire una disponibilità ad un accordo con le imprese sul tema. Bonanni e Angeletti non hanno, in altri termini, esplicitamente criticato il merito della proposta, ma il metodo. Secondo la Cisl, infatti, la materia dovrebbe essere regolata dalle parti senza “l’invasione di campo” del Governo e della politica. Probabilmente, un accordo tra le parti sociali e il Governo si troverà (anche con la Cgil?) ma riguarderà le sole aziende coinvolte in Expò 2015 e lo strumento è quello dell’Avviso comune tra le parti. Una buona mediazione, a mio avviso.

Il merito della questione evidenzia, invece, la questione culturale e d’identità soprattutto della Cgil (di una parte, ad onor del vero) ancora irrisolta.

La vita, il mondo del lavoro, le imprese, non sono astrazione. Sono la realtà, ed è con questa che dobbiamo misurarci se vogliamo incidere, modificarla e migliorarla, e non con le “Luna”. E la realtà ha un tratto distintivo dirimente: è complessa. Gestire la complessità con un atteggiamento rigido, sebben ispirato a valori condivisibili in astratto, può creare danni enormi e ottenere l’effetto opposto rispetto a quanto atteso.

Non possiamo limitarci all’enunciazione di un principio, con atteggiamento dogmatico, infischiandocene delle conseguenze pratiche. Max Weber, il noto sociologo e filosofo tedesco che ha vissuto a cavallo tra l’800 e il ‘900, aveva distinto l’etica delle responsabilità dall’etica della convinzione, nel suo celebe testo, “La politica come professione”.  In poche parole, c’è un’etica che bada alla forma e un’altra alla sostanza. Chi fa “politica”, intesa in senso lato, non può permettersi l’etica della convinzione.

In certi atteggiamenti sindacali di una parte della Cgil, riscontro un ancoraggio culturale di fondo, difficile da scardinare e che guida le scelte di molti suoi dirigenti, all’etica della convinzione.  C’è ancora un riflesso condizionato di pavloviana memoria che scatta in modo istintivo prima ancora che in termini razionali. Questo spiega, forse, i ritardi della confederazione guidata da Susanna Camusso su alcune scelte strategiche. Ha bisogno di più tempo per metabolizzarle, rispetto agli altri sindacati appartenenti ad una cultura più pragmatica e collaborativa. Ci mette tempo, ma alla fine anche il sindacato di Corso Italia arriva al “compromesso pragmatico”.

Un fatto per tutti: l’accettazione della pesantissima riforma delle pensioni del Governo Monti, con il grave strascico degli esodati, senza nessuna barricata o clamorosa azione di protesta: solo 4 ore di sciopero e tutti a casa! Forse, se si fosse accettata una strada più graduale in passato, l’accellerata imposta dal duo Monti-Fornero anche con i voti del Pd di Bersani e “l’anestetico sociale” garantito dalla Cgil, non sarebbe stata necessaria.

Il punto è capire se il Paese, nella situazione in cui è caduto, può permettersi di aspettare la Cgil e rinviare ad un futuro prossimo l’adozione di scelte divenute, nel frattempo, più difficili.



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