Alla luce degli ultimi fraintendimenti per le parole di papa Francesco, è interessante rileggere un saggio della rivista dei gesuiti a firma di padre Pino Di Luccio e Massimo Grilli, “Gesù e i farisei. Al di là degli stereotipi”, pubblicato nel 2019. Un contributo al reciproco rispetto, oltre che alla conoscenza e all’archiviazione dei luoghi comuni
La recente polemica innescata da alcune affermazioni di papa Francesco alle quali sono seguite richieste di chiarimento da parte ebraica, ha evidenziato anche un problema di linguaggio molto diffuso e importante.
Infatti quando si parla dei Vangeli e degli ebrei si finisce inevitabilmente col parlare dei farisei. E quando questo accade il termine viene usato genericamente e in modo critico, senza sapere chi fossero, sulla base di diffusi stereotipi. È allora interessante rileggere come, qualche tempo fa, tutto questo è stato al centro di un simposio internazionale svoltosi alla Gregoriana e di cui ha dato conto con un suo saggio La Civiltà Cattolica. I tempi, infatti, cambiano, alla volte profondamente e la pubblicazione nel 2019 di “Gesù e i farisei. Al di là degli stereotipi” sulla rivista dei gesuiti merita ancora attenzione perché è un testo finalmente innovativo che consente ai cattolici di farsi un’idea molto diversa.
La rivista diretta da padre Antonio Spadaro infatti ha dato conto con questo ampio studio-resoconto di quanto emerso in occasione del simposio internazionale organizzato nel 110° anniversario del Pontificio Istituto Biblico. Un convegno che ha riconsiderato “i fattori responsabili degli stereotipi che hanno segnato la percezione comune dei farisei”. Nel messaggio di apertura papa Francesco ha auspicato che il convegno “mettendo in relazione fedi e discipline nel suo intento di giungere a una comprensione più matura e accurata di chi fossero i farisei, permetterà di presentarli in modo più appropriato nell’insegnamento e nella predicazione”.
Gli autori, padre Pino Di Luccio e Massimo Grilli, ci portano subito e con parole chiare nella centralità della questione: “Il giudizio che il cristianesimo, lungo i secoli, ha formulato sui farisei – con la connotazione negativa che il fariseismo ha assunto nel pensiero teologico e nella catechesi ecclesiale – è figliastro di una teologia antigiudaica. Una certa teologia cristiana, come quella della «sostituzione» (sostituzione dell’Alleanza, della Legge, del popolo di Dio ecc.) e quella del compimento, inteso come «perfezionamento» di ciò che era prima imperfetto (perfezionamento dell’immagine di Dio dell’Antico Testamento, perfezionamento dei precetti della Torah ecc.) ha portato a un fraintendimento sostanziale del movimento farisaico e della successiva teologia rabbinica. I farisei sono divenuti i nemici di Gesù, i rappresentanti della Legge che si oppone alla Grazia, del vecchio che si oppone al nuovo”.
Siamo dunque nel racconto, poco raccontato, di un profondo cambiamento teologico che merita attenzione, anche perché poco dopo il testo ci dice che l’errore è stato assumere acriticamente quanto emergeva “dalle sole fonti evangeliche”. Il racconto qui si fa molto complesso, pienamente teologico, ma presto torna a riguardare i cristiani ordinari, arrivando agli evangelisti: “Per quanto riguarda lo studio sulla lettura che i Vangeli danno dei farisei, è auspicabile che la riflessione futura obbedisca meno a criteri «dogmatici» e più a criteri di verità storico-critica. Dell’identità dei farisei nei primi tre decenni d. C. sappiamo poco, e il poco che sappiamo è polimorfo. I testi che sono in nostro possesso sono troppo frammentari. Flavio Giuseppe, ad esempio, nelle sue opere menziona i farisei solo 44 volte, e nella Guerra giudaica solo 7. Lì essi vengono classificati come «scuola di pensiero», insieme ai sadducei e agli esseni, e tuttavia, sebbene vengano descritti come un movimento riformatore – ma senza un potere diretto a livello di governo –, lo storico giudeo non presenta mai un’immagine unitaria del loro pensiero e della loro organizzazione interna. Qualcosa di analogo andrebbe detto sull’immagine dei farisei nella letteratura rabbinica. Le storie e i detti dei saggi risalenti al I secolo a. C. sono pochi e frammentari. Sulla discussa figura di Hillel ha forse ragione chi afferma che «lo Hillel di queste fonti rabbiniche non è davvero più storico di quanto lo sia il Gesù del Vangelo». Se dunque sappiamo così poco dei farisei al tempo di Gesù, come mai essi hanno assunto tanta importanza nella tradizione cristiana? Ciò è dovuto senz’altro al Nuovo Testamento, che menziona i farisei per ben 97 volte, con il «fronte antifarisaico», rappresentato soprattutto da Matteo e da Giovanni e da alcune pagine che hanno l’impronta di uno stereotipo massificante e ingiusto. Fondarsi su una solida base storico-critica significherà allora non solo riconoscere le diversificazioni esistenti in materia di fede e di vissuto al tempo di Gesù, ma anche distinguere tra i vari atteggiamenti all’interno di un sistema variegato e complesso come quello che ci è stato tramandato come retaggio dei farisei”.
Sugli evangelisti e i farisei vengono indicati elementi davvero sorprendenti per chi, soprattutto tra i cattolici, non ha familiarità con lo studio della materia: “Storicamente lo stereotipo negativo di Matteo non sta in piedi, come del resto non sta in piedi mettere sulla bocca di Gesù le parole: «Fate e osservate tutto quello che essi [gli scribi e i farisei] vi dicono; poiché essi parlano [solamente] e non fanno» (Mt 23,3). Prima si ordina di osservare in toto l’insegnamento dei farisei, e poi di rifiutare in toto il loro comportamento? È un po’ come quando si dice che Gesù guarì «tutti» i malati, o che percorreva «tutte» le città e i villaggi della Galilea e della Giudea (cfr Mt 9,35): si tratta di iperboli, che hanno un intento pragmatico e che non vanno lette nella loro accezione locutoria, ma nella loro forza illocutoria, con l’intento cioè di produrre un qualche effetto sui lettori”.
Avviandosi verso le conclusioni gli autori non cambiano registro e le loro raccomandazioni ci aiutano a capire altro. “In futuro sarà dunque necessario distinguere quello che poggia su basi storiche e quelle espressioni che invece sono diventate dei topoi argomentativi classici, modelli precostituiti o schemi letterari per il raggiungimento dei propri scopi. «La prospettiva di Matteo nella sua rielaborazione redazionale non è storica, bensì teologico-letteraria e quasi nella forma di un manifesto», osserva Hubert Frankemölle. E noi possiamo aggiungere che l’intento dello scriba Matteo è quello di convincere i suoi uditori e lettori che la prospettiva da lui proposta è vera e giusta. Pertanto egli si serve di mezzi retorici, che non escludono qualche basso fendente, per convincerli a seguire la propria lettura della Torah e dei profeti”.
E Gesù? Leggere che potrebbe essere stato un fariseo a questo punto non sorprende. Ma è meglio stare al resoconto pubblicato da La Civiltà Cattolica: “Dopo un periodo secolare di disamine critiche che hanno insistito soltanto sulla polemica tra Gesù e i farisei, sarà bene che qualcuno ritorni a occuparsi sul piano storico-critico di quei punti di contatto tra Gesù e i farisei che, sulla base del detto e non-detto dei Vangeli, possono essere appurati. La ricerca di una trasformazione personale e sociale, con uno strenuo impegno a cercare quanto appartiene all’«autentica volontà di Dio» (la «giustizia») è retaggio sia del movimento farisaico sia del movimento di Gesù e dei suoi discepoli; il compimento della Torah, che appartiene alla struttura fondamentale del Vangelo di Matteo, non è radicalmente lontano dalla ricerca della perfezione farisaica. Il maestro Hillel – con le debite cautele avanzate da Günter Stemberger – riassumeva la legge in termini evangelici: «Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Ecco tutta la Legge, tutto il resto è commento» (b. Shabbat 31a). La fiducia in Dio, il giudizio, la fede nella risurrezione, l’attesa del compimento futuro e così via appartengono sia alle basi del giudaismo rabbinico sia a quelle del cristianesimo. Leggendo alcune pagine evangeliche, si potrebbe persino ipotizzare che Gesù fosse un fariseo”.
Questo contributo al reciproco rispetto, oltre che alla conoscenza e all’archiviazione dei luoghi comuni, merita attenzione ancora oggi, due anni dopo la sua pubblicazione.