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Il pragmatismo che serve alla Difesa europea. Scrive l’amb. Minuto Rizzo

Dall’Afghanistan all’Aukus, il dibattito è tornato a concentrarsi sulla Difesa europea. Con lo stallo tedesco potrebbe prendere forza l’iniziativa francese, che punta a dotare il Vecchio continente di autonomia strategica. Eppure, bisogna calare il tema nella realtà, e ammettere che non sarà facile. Scrive l’ambasciatore Alessandro Minuto Rizzo, presidente della Nato Defense College Foundation

L’invocazione di una “Difesa europea” è sulle prime pagine dopo la caduta di Kabul, con la conseguente percezione di marginalità, inaffidabilità della protezione americana, debolezza della Nato. La questione non nasce oggi ed è bene inquadrare il tema.

L’opportunità di una politica comune estera e di difesa ha preso forma alla fine degli anni Novanta. La prima riunione dei ministri della Difesa dell’Unione europea si è svolta alla fine del 1999; lo scrivente accompagnava l’allora ministro Sergio Mattarella. Nel marzo del 2000 venivano create a Bruxelles le prime strutture europee permanenti: il Comitato per la politica e la sicurezza (Cops) e, in parallelo, un Comitato militare. Le ambizioni erano elevate. La spinta politica veniva dal presidente francese Jacques Chirac che aveva convinto i leader europei, compresa l’Inghilterra di Tony Blair. Si voleva creare una cultura comune in politica estera facendo lavorare insieme un gruppo di ambasciatori dei Paesi membri. In parallelo, una politica di difesa comune sembrava già a portata di mano, un percorso percorribile.

Nei documenti concordati, che furono fissati nel vertice di Nizza del dicembre 2000, l’obiettivo era il “Headline Goal”, cioè una forza di reazione rapida di 60mila uomini, da formare entro il 2003, capace di agire a quattromila chilometri di distanza con un preavviso di 60 giorni. Chi scrive, primo rappresentante italiano al Cops, partecipava a quello sforzo verso una politica estera e di difesa, su vi era la convinzione che si trattasse di una effettiva prospettiva. Successivamente si arrivò al trattato di Lisbona del 2009, la creazione di un Servizio esterno europeo, l’ampliamento della figura dell’Alto rappresentante. Si è sviluppata l’attuale architettura istituzionale,
che appare ormai molto completa, senza dimenticare il contestuale grande allargamento ad est.

Questo per dire che non bisogna avere la memoria corta, ma vedere questo processo nel suo sviluppo temporale. Venendo all’oggi, la domanda che si fa l’opinione pubblica è: perché non c’è una vera politica di difesa? Passando dalle aspettative alla realtà si capisce che si tratta di un tema difficile. Le ambizioni iniziali non si sono in effetti realizzate. Vi sono state varie “operazioni” europee, ma in larga parte simboliche e di piccole dimensioni. Se si guarda all’Afghanistan, ad esempio, l’Unione si è ben guardata dall’avervi un ruolo lasciando il cerino acceso ad altri. Nei primi anni 2000 si diceva che non doveva esserci duplicazione con la Nato. Adesso questo principio è diventato desueto, e l’Unione ha un proprio quartier generale e tutte le strutture che ritiene utile avere a sua disposizione. La presidente della Commissione Ursula von der Leyen nel suo recente discorso sullo Stato dell’Unione ha anche parlato di un nuovo “centro di situazione”. Ben venga.

Per completare il quadro, esiste da lungo tempo un accordo che consente all’Ue di usare “gli assetti e le capacità” della Nato per le operazioni che decide autonomamente. Su questa base si svolge l’operazione Ue “Althea” in Bosnia- Erzegovina. Si può fare di più? Certamente, ma bisogna tener conto della complessità dell’Unione europea.

La prima difficoltà è la regola dell’unanimità su queste materie. Un problema più serio di quanto possa apparire a prima vista poiché alcuni Paesi hanno iscritta la neutralità nella Costituzione. Pensiamo ad Irlanda, Austria, Finlandia, e Svezia per prassi. Per loro un’azione militare crea dei problemi. Il sistema di decisione europeo è democratico e trasparente, ma ha la complessità e l’articolazione necessarie per tenere insieme 27 Paese diversi. Non è facile immaginare come Consiglio, Parlamento, Commissione condividano, con la tempestività talvolta necessaria, la decisione su un’operazione militare. Essa può necessariamente implicare l’uso della forza e la possibilità di perdite umane. Sappiamo per esperienza che l’opinione pubblica europea vede queste ipotesi con molta riluttanza.

In conclusione, una scelta politica europea in questo senso è possibile, ma ardua. Del resto, la consensualità su altre materie non ci incoraggia: emigrazione, fiscalità, politiche di bilancio. L’altro aspetto da ben considerare è lo scarso impegno nazionale nei bilanci della difesa. Ad esempio, vi è una debolezza di fondo nel trasporto aereo strategico e nelle tecnologie satellitari di intelligence. Del resto, la Bosnia, il Kosovo e la Libia ci hanno mostrato vistose carenze. La stessa Francia, che si profila come guida per una difesa europea, propone la sua leadership ma deve confrontarsi con queste realtà. La vediamo anche in difficoltà nel un suo ambito storico naturale del Sahel.

Forse bisogna cercare altre vie, come un’unione di volenterosi con lo spirito completamente europeo, ma al di fuori delle regole istituzionali. L’impressione che si ricava comunque da questi ultimi anni, sui grandi temi, è quella di una debolezza politica di fondo oltre a una carente solidarietà. Bisogna avere voglia di contare nel mondo e questo va di pari passo all’assunzione di responsabilità e alla consapevolezza che ciò comporta dei pesi da sostenere. Il dibattito politico nei Paesi dell’Unione, su un tema così serio, dovrebbe focalizzarsi su queste concrete realtà che sono alla base di ogni scelta futura.


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