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Dombrovskis, o del perché i trattati non si cambiano. Si interpretano

È da quando esistono che i famigerati parametri di Maastricht non vengono applicati alla lettera. Modificare i trattati sarebbe impossibile, e così, a meno di far piombare l’Europa in una recessione tremenda, nessuno chiederà all’Italia di passare dal 153% di rapporto debito/Pil del 2021 al canonico 60% nel 2024

Il Vice Presidente della Commissione europea, il lettone e giovane Valdis Dombrovskis, ha tenuto a precisare dalle colonne del più diffuso quotidiano italiano, che il Trattato di Maastricht non verrà cambiato quando l’’emergenza sanitaria ed economica sarà giudicata terminata. E con esso quei parametri relativi all’indebitamento annuale della pubblica amministrazione e dello stock di debito in percentuale del Pil che Romano Prodi, il quale della Commissione europea è stato Presidente, definì “stupidi”.

E’ una precisazione fatta su un quotidiano italiano perché in Italia si levano voci che chiedono una modifica dei parametri. Sono voci – occorre precisare – di parlamentari alla prima o seconda legislatura e sostanzialmente privi di cultura economica e giuridica, ove non di cultura tout court.

E’ una precisazione banale perché tutti coloro che hanno un minimo di preparazione sanno come modificare un trattato tra 27 Stati membri sia poco praticabile non solo per la difficoltà di individuare nuovi parametri (e giungere ad un accordo su di essi) ma anche per la necessità di ratifiche da parte di 27 parlamenti.  I trattati, però, se non si emendano, si interpretano.

E’ utile ricordare come sono nati i parametri del Trattato di Maastricht e come sono stati interpretati nella realtà effettuale delle cose. Quando nel 1990-91 si stava negoziando il trattato di base dell’unione monetaria europea, apparve chiaro che si sarebbe tratto di «unione valutaria ottimale», quale definita dal Premio Nobel canadese ma a lungo residente nei pressi di Siena, Robert Mundell.

La «teoria dell’area valutaria ottimale» dimostra che se non c’è libero movimento dei capitali e soprattutto dei lavoratori un’unione monetaria non solo non è un’area «ottimale» ma soprattutto alla lunga non regge, tranne che non ci siano trasferimenti che riducano la necessità di movimenti dei lavoratori da Paesi a basso reddito medio e poco sviluppo a Paesi ad altro reddito medio ed in crescita.

Detta teoria è infatti alla base dei trasferimenti dall’Unione europea (Ue) a gli Stati in maggiore difficoltà – come la «facility» finanziaria del «Next Generation EU». All’epoca, tutta una serie di Stati, in primo luogo la Germania, non erano affatto pronti a creare un’unione monetaria «di trasferimenti». Allora sempre con l’alta consulenza di Mundell, si approntò un’unione monetaria «di regole» nella prospettiva che le regole avrebbero portato ad una convergenza tra Stati e quindi se non ad un’unione «ottimale» ad una molto simile ad essa.

Queste regole vennero approntate al termine della trattativa sulla base di una proposta di mediazione dei diplomatici del Benelux, tra cui un giovane diplomatico belga molto versato in statistica ed economia che aveva studiato e lavorato in Italia prima di intraprendere «la carriera per antonomasia».

Queste regole sono molteplici, alcune entrate in disuso. Come la più importante (quella relativa al «surplus commerciale eccessivo») che avrebbe dovuto portare a sanzioni nei confronti della Repubblica Commerciale Tedesca – lo ha ricordato qualche tempo fa uno studio dell’Osservatorio dei Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica – ma che nessuno ha invocato perché l’export faceva crescere la Germania ed a sua volta l’espansione tedesca trainava tutta Europa.

In effetti, le regole che fanno tremare Paesi come l’Italia sono quelle che riguardano il debito pubblico (non superare il 60% del Pil) e l’indebitamento netto della pubblica amministrazione o deficit annuale di bilancio (non superare il 3%). Il primo era la media ponderata del debito in rapporto al Pil degli Stati che stavano formando l’unione monetaria. Il secondo deriva da un semplice calcolo aritmetico: alle condizione della fine degli Anni Novanta (tassi di interesse, inflazione, ecc.) al fine di mantenere il debito al 60% del Pil, il deficit annuale dei conti pubblici non doveva superare il 3% del Pil. I «numerini», se non «stupidi», sono approssimativi.

Come tali sono stati sempre interpretati. Si è fatto cenno al surplus commerciale della Germania. Si è anche sorvolato, nei primi anni dell’unione monetaria, sul disavanzo annuale di Francia e di Germania. Nel 2009, si è rimbrottata, e non solo, la Grecia perché ci si accorti che aveva truccato il bilancio e stava andando verso l’insolvenza. Nel 2011, fu la volta dell’Italia perché si temevano ripercussioni su tutta l’area dell’euro se non fossimo riusciti a gestire bene le emissioni di debito sul mercato internazionale. Ancora oggi, l’Italia è il maggiore beneficiario sia del Next Generation Eu sia dell’acquisto di titoli di Stato da parte della Banca centrale europea (Bce) per il timore che instabilità finanziaria dell’Italia o in Italia contagi il resto dell’unione monetaria.

Si è anche ricorso a strumenti più formali per interpretare i parametri di Maastricht. Ad esempio, il six pack è un insieme di cinque regolamenti comunitari (regolamento n. 1177/2011 dell’8 novembre 2011, n. 1173/2011, n. 1174/2011, n. 1175/2011 e n. 1176/2011 del 16 novembre 2011) e una direttiva (n. 2011/85/UE dell’8 novembre 2011), che ha modificato le regole di applicazione del Patto di stabilità e crescita (Psc). In estrema sintesi è stato introdotto il ciclo annuale di coordinamento delle politiche economiche e di bilancio noto come «semestre europeo», che comprende anche un sistema di sorveglianza dei dati macroeconomici di ciascun paese, per cui se la Commissione europea ritiene che ci siano degli squilibri può chiedere allo Stato di adottare misure di politica economica dirette alla loro eliminazione.

Probabilmente, si ricorrerà ancora a strumenti quali i regolamenti o gli accordi intergovernativi per interpretare i parametri. O si chiuderà un occhio sino a quando vengono condotte politiche economiche che la Commissione e gli altri Stati dell’Ue considerano appropriate. Di certo non si chiederà all’Italia che il debito pubblico scenda dal 153% del Pil nel 2021 al 60% del Pil nel 2024. Creando una recessione che trascinerebbe tutta l’Unione europea.


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