L’analisi di Stefano Dambruoso, magistrato ed esperto di terrorismo internazionale, e Francesco Conti, ricercatore, Master’s Degree in Terrorism, Security and Society al King’s College London
Tre attentati in dieci giorni: Kandahar, Norvegia, Londra. La violenza islamista sembra essersi rivitalizzata dopo la presa di Kabul da parte dei Talebani. Si è poi da pochi giorni concluso il G20 straordinario voluto dal presidente del Consiglio Mario Draghi per cercare di trovare una soluzione alla grave crisi umanitaria che sta affliggendo l’Afghanistan da due mesi, da quando cioè le milizie talebane hanno preso controllo della capitale Kabul. Con l’instaurazione dell’emirato da parte degli studenti coranici delle madrase e la fine della ventennale guerra fra le truppe statunitensi, i contingenti della coalizione internazionale (prima Isaf e poi sotto l’egida della missione Resolute Support) supportate anche dalle forze armate afgane da un lato in conflitto con talebani, coadiuvati da un coacervo di gruppi di ispirazione jihadista.
Con l’accordo di Doha siglato lo scorso anno, premessa al ritiro americano, i Talebani si sono impegnati ad assicurare che il suolo afgano non torni in alcun modo ad essere utilizzato per realizzare attentati contro gli Stati Uniti o i loro alleati. Malgrado gli impegni presi, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha comunicato che gli studenti coranici e al-Qaeda sono ancora in stretti rapporti, non solo ideologici, ma anche operativi, con diversi vertici del gruppo fondato da Osama bin Laden che attualmente gode della protezione delle milizie talebane nelle aree remote al confine col Pakistan.
Nonostante ciò, sembra che al-Qaeda sia consapevole dell’enorme posta politica in gioco da parte dei Talebani e, per tale motivo, l’organizzazione guidata da Ayman al-Zawahiri si è momentaneamente defilata, puntando su una strategia attendista e paziente, invece di attirare l’attenzione con la pianificazione di attentati. A differenza dello Stato islamico, che è tornato a colpire con attacchi distruttivi, dopo anni in cui aveva subito ingenti perdite a causa delle operazioni antiterrorismo statunitensi.
Isis-Khorasan – presente sul campo già dal 2015 ma salito alla ribalta mediatica con l’attentato all’aeroporto di Kabul dove sono morti 13 militari americani oltre a centinaia di civili durante le procedure di evacuazione (tra cui l’Operazione Aquila Omnia del ministero della Difesa italiano) – non è una semplice costola della organizzazione attiva tra Siria e Iraq. Almeno per il momento sembra concentrata sulla lotta al governo talebano, non avendo evidenziato interesse ad attaccare gli Stati Uniti e l’Europa. Lo Stato islamico fra Siria e Iraq era dotato di una vera e propria unità per porre in essere attentati in Occidente (l’unità Enmi, in cui aveva un ruolo primario Abdelhamid Abaaoud, la mente degli attentati di Parigi del novembre 2015).
Tale focus contro il “nemico lontano” aveva però acquisito importanza solo dopo la conquista territoriale in Siria e Iraq, strategia che non si esclude possa riproporsi con un consolidamento di Isis-K nelle provincie afgane. Inoltre, a differenza della “casa madre”, che è riuscita ad attrarre decine di migliaia di foreign fighter, provenienti da ogni continente, Isis-K non ha a disposizione questo manpower.
Antonio Giustozzi, esperto di Afghanistan e professore al War Studies Department del King’s College di Londra, ha scritto che ciò è dovuto alle notevoli complessità logistiche per recarsi nel Paese rispetto al teatro mediorientale, fattore che dovrebbe ridurre di molto la possibilità di attrarre futuri jihadisti dall’Europa, limitando le reclute ai Paesi limitrofi (repubbliche ex-sovietiche dell’Asia Centrale, Pakistan e India). Ma grazie al web, i jihadisti presenti in Afghanistan potrebbero facilmente influenzare e ispirare, anche da remoto, terroristi “fai-da-te” in Europa e Stati Uniti, senza bisogno che essi si rechino in Afghanistan per l’addestramento operativo.
Punto di contatto con il gruppo fondato dal Abu Bakr al-Baghadi è invece la sua ideologia fortemente settaria, che, sul terreno afgano, si è più volte tradotto in attentati contro la minoranza etno-religiosa degli hazara: negli ultimi dieci giorni, infatti, sono state colpite due moschee frequentate da fedeli sciiti, con un bilancio di quasi 100 morti. Almeno per il momento, si può solo dire che il terrorismo, dopo il ritiro dell’occidente, si è riorientato in funzione anti-talebana, in un programma di destabilizzazione che porti ad incolpare il governo centrale, incapace di provvedere alla sicurezza dei cittadini.
Fra i talebani (e al-Qaeda) da un lato e Isis-K dall’altro la distanza è oggi alta, con visioni e strategia differenti sul jihad armato. Ma il regime talebano deve anche trovare la soluzione per far fronte alla cronica mancanza di denaro che rischia di portare a un collasso la stessa amministrazione centrale, vista l’impossibilità di pagare i dipendenti pubblici.
Tale crisi potrebbe anche causare una reviviscenza della violenza su più vasta scala. Dopo la presa del potere da parte dei Talebani l’amministrazione statunitense presieduta da Joe Biden ha prontamente congelato i miliardi di dollari della banca centrale afghana (consistenti principalmente in oro e valute estere) depositati presso banche statunitensi. Inoltre, la leadership talebana è sotto sanzioni da parte delle Nazioni Unite da più di due decenni, ancora prima dell’11 settembre. Infatti, la prima misura internazionale a colpire il regime degli studenti coranici, per la vicinanza a bin Laden, fu la risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1267 del 1999 (seguita all’attacco terroristico contro le ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania dell’anno prima, pianificato proprio dall’Afghanistan), che istituì l’asset freeze ai danni di al-Qaeda e dei suoi sponsor afgani.
I Talebani e anche il network Haqqani (il cui capo è ora ministro dell’Interno, Sirajuddin Haqqani, ma sembra avere anche legami con lo Stato islamico) sono presenti anche nella European Union Consolidated Financial Sanction List stilata dalla Commissione europea, che impedisce loro di porre in essere qualsivoglia transazione con i Paesi membri (anche con privati). La finalità esplicita delle sanzioni europee non è solo quello di contrastare entità o individui che finanziano il terrorismo internazionale, ma anche sanzionare coloro che compiono violazioni dei diritti umani, come nel contesto dell’Afghanistan talebano dove si teme un ritorno all’oscurantismo degli anni Novanta, soprattutto per quanto riguarda i diritti delle donne, uno dei principali punti del G20 straordinario voluto da Draghi.
Nonostante tali misure sanzionatorie, in seno al G20, l’Unione europea è riuscita a promettere un miliardo di euro per alleviare la tragica situazione umanitaria che potrebbe favorire i gruppi terroristi presenti nel Paese, in primis Isis-K, che, come tutte le organizzazioni jihadiste, riesce ad attecchire nella popolazione con iniziative di welfare sostituendosi allo stato centrale nel fornire i servizi l’ordine e la sicurezza.
Non meno importante è l’emergenza Covid-19 nel Paese. L’ultimo rapporto della Difesa statunitense precedente al ritiro descriveva una situazione critica con contagi in rialzo, molti ospedali sovraffollati e un tasso di vaccinazione bassissimo, soprattutto nelle aree sotto controllo talebano. Anche tale fattore potrebbe portare a ulteriori destabilizzazioni socio-economiche, terreno fertile per Isis-K.