Leonardo Bellodi ricostruisce ascesa e caduta del leader libico ne “L’ombra di Gheddafi” (Rizzoli). Formiche.net pubblica l’estratto dedicato ad Abu Nidal, fondatore del Consiglio rivoluzionario di Fatah e autore di gravi atti terroristici, fra cui l’attacco a Fiumicino del 1985. Sarebbe da ricondursi a lui anche l’attacco alla Sinagoga di Roma del 1982 in cui perse la vita il piccolo Stefano Gay Tachè
Quando decide di trasferire in Libia il quartier generale della sua impresa terroristica, Abu Nidal trova in Gheddafi un magnifico anfitrione. È il 1987 e già da alcuni anni il più temuto terrorista arabo del tempo e il principale sponsor del terrorismo hanno iniziato a collaborare. La protezione concessa ad Abu Nidal e alla sua organizzazione è diventata negli anni un segno di distinzione per gli Stati che si contendono la guida del fronte del rifiuto.
Il terrorista è stato a lungo ospitato in Iraq da Saddam Hussein, poi in Siria, dove il prudente Assad lo ha però tenuto a distanza dai vertici dello Stato. Quando arriva in Libia nel 1987, dopo due anni a cavallo tra Damasco e Tripoli, Gheddafi gli consegna un terreno nel deserto di oltre sei chilometri quadrati. Abu Nidal mette in piedi campi di addestramento per il suo esercito popolare – i miliziani sono reclutati nei campi profughi libanesi e importati in Libia via Damasco –, un centro di ricerca, gli uffici per l’amministrazione del gruppo, un villaggio separato per i quadri e ovviamente anche una vasta prigione con annesse celle speciali per interrogatori e torture riservati agli uomini sospettati di tradimento. Non manca lo spazio per pianificare le operazioni terroristiche all’estero, il core business di Abu Nidal. Al chef de guerre palestinese e al suo Stato Maggiore vengono inoltre concessi alloggi di lusso a Tripoli e dintorni.
La sintonia operativa con il regime è ottima, la linea politica condivisa. Il palestinese è un fuoriuscito di Fatah, che da anni combatte una guerra senza quartiere contro Arafat e i suoi, accusati di collusione con il nemico sionista. Al conflitto interno, dalla fine degli anni Settanta in poi – quando inizia a uccidere esponenti di primo piano dell’Olp – Abu Nidal dedica più energie che alla guerra contro Israele. Anche la serie di attacchi indiscriminati contro i civili sembra pensata per screditare la lotta palestinese e far saltare ogni ipotesi di negoziato.
Tra i più efferati, c’è l’attentato alla sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982, in cui viene ucciso un bambino di due anni, Stefano Gaj Taché, e nel quale rimangono ferite altre trentasette persone. Il più grave atto antisemita commesso in Italia dalla Seconda guerra mondiale si verifica poche settimane dopo la prima visita a Roma di Yasser Arafat, invitato da Giulio Andreotti, ricevuto dal presidente della Repubblica Sandro Pertini e accolto con tutti gli onori in Parlamento.
Oltre ai palestinesi impegnati nel dialogo, gli attacchi prendono di mira i Paesi più vicini alla causa e pronti a mediare con l’Occidente. Il 27 dicembre 1985 il duplice attentato ai banchi di accettazione della compagnia israeliana El Al negli aeroporti di Roma e Vienna causa complessivamente 19 morti e 120 feriti. La strage ha come teatro i due Paesi europei più impegnati nel dialogo con l’Olp ed è rivendicata come una rappresaglia dopo il bombardamento israeliano del quartier generale dell’organizzazione a Tunisi il 1° ottobre di quello stesso anno (operazione Gamba di legno).
L’impatto sul movimento palestinese è devastante. Gli attentati inoltre fanno precipitare la crisi tra Usa e Libia e accelerano la resa dei conti militare, che scatterà come abbiamo ricordato in seguito all’attentato alla discoteca La Belle di Berlino, quattro mesi dopo. Se la responsabilità di Abu Nidal è indubbia, più difficile attribuire la paternità politica dell’operazione a Damasco o a Tripoli, visto che a quel tempo il palestinese è servo di due padroni. Stando alla testimonianza di ex uomini di Abu Nidal però, l’intelligence libica avrebbe partecipato alla pianificazione degli attentati, fornendo armi e documenti. L’agenzia di stampa statale Jana peraltro in quei giorni esalta l’eroismo degli attentatori e lo stesso Gheddafi, giusto due settimane dopo la strage, sottolinea che «quando gli israeliani danno la caccia ai palestinesi fuori dalla Palestina, allora anche i palestinesi hanno il diritto di inseguire gli israeliani dappertutto nel mondo. In modo particolare a Roma e a Vienna».
La campagna terroristica di Abu Nidal – e di conseguenza il sostegno che gli garantisce Gheddafi – è talmente controproducente per la lotta palestinese da alimentare il sospetto che la sua organizzazione sia stata infiltrata dal Mossad.
Al netto delle teorie complottiste, il danno inflitto alla causa è una conferma dell’effetto spesso devastante che le azioni del panarabista Gheddafi hanno sul mondo arabo. Non si tratta solo di un effetto collaterale del suo radicalismo: il leader libico usa il terrorismo sia per portare avanti i propri progetti politici all’estero – vedi il tentativo di rovesciare il leader della Tunisia Habib Bourguiba nel 1980 –, sia per regolare i conti con nemici e oppositori. Come un gangster, insomma, che ricorre a sicari prezzolati. La stessa frattura con Arafat sarebbe stata inizialmente causata, oltre che dal presunto eccesso di moderazione del leader palestinese, dal suo rifiuto nel 1975 di usare gli uomini di Fatah per uccidere Omar al-Meheishi, esponente di spicco del Consiglio di comando libico della rivoluzione e compagno di lotta di Gheddafi sin dai tempi di Misurata, accusato di aver tentato di spodestare il raìs.
Come spiega Abu Ayad, capo dell’intelligence dell’Olp e luogotenente di Arafat dentro Fatah, in una lunga intervista rilasciata al settimanale tedesco «Der Spiegel»: «Gheddafi vuole sempre che seguiamo completamente i suoi ordini […] ci tratta come mercenari assoldati».
Anche in questo Abu Nidal è un partner-cliente ideale per il Colonnello. L’organizzazione del terrore si integra perfettamente nella struttura della Jamahiriya. Gheddafi fornisce ad Abu Nidal il sostegno logistico ed economico che serve per le sue azioni e il palestinese in cambio mette al servizio della Libia il suo apparato di intelligence. Quando serve, Abu Nidal va a stanare e uccide gli uomini che Gheddafi vuole vedere morti, «cani randagi» all’estero in primis, come aveva già fatto per conto di Assad durante la sua permanenza in Siria.
L’idillio però non dura molto. Alla fine del 1989 Abu Nidal viene posto per un periodo agli arresti domiciliari, in seguito alle pressioni di diversi governi arabi, pressioni alle quali un Gheddafi in via di moderazione si dimostra molto sensibile. Tre anni dopo, pochi giorni prima del varo delle sanzioni Onu, Abu Nidal e la sua organizzazione vengono invitati a lasciare il Paese. La Libia di lì a poco si vedrà chiudere le porte della comunità internazionale, condannata a un doloroso e costoso isolamento proprio a causa del suo sostegno al terrorismo.