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Chiuso il G20. Il multilateralismo non è la panacea ma almeno…  

Di Armando Sanguini

L’approccio seguito durante questo summit può dare almeno una qualche briciola di democraticità nei rapporti internazionali. L’analisi di Armando Sanguini, Senior Advisor Ispi, già ambasciatore italiano in Tunisia e Arabia Saudita

La sintesi concettuale tra lotta alla pandemia, contrasto ai cambiamenti climatici e rilancio dell’economia – esemplificata nella triade “persone, pianeta e prosperità” – ha espresso efficacemente la visione strategica con cui il governo italiano ha deciso di qualificare e impegnare la presidenza italiana del G20 in questo 2021.

Una visione che ha voluto anche indicare nel multilateralismo – ancorché ristretto al perimetro del G20, che comunque identifica gran parte della ricchezza del pianeta e della responsabilità politica del suo futuro – uno se non lo strumento indispensabile per affrontare le gradi sfide globali del nostro tempo. E a esso si è rivolto del resto anche per dare una prima risposta alle emergenze sociali ed economiche provocate dal disastroso ritiro dall’Afghanistan.

Intendiamoci, il multilateralismo non è la panacea ma è il meccanismo suscettibile di limitare le ambizioni egemoniche e di dare almeno una qualche briciola di democraticità nei rapporti internazionali.

Comunque, a fronte di quelle sfide, di cui è obiettivamente difficile sopravvalutare la portata dato che esse investono un’impressionante molteplicità di conseguenze interdipendenti a tutti i livelli della vita del pianeta, sarebbe parso quanto meno pletorico identificare specifiche aree di riferimento da collocare in un ideale indice programmatico. Ma almeno alcune di quelle aree, quelle più emblematiche per il crogiuolo di fattori riconducibili alla triade che ho menzionato prima, sono state ben presenti soprattutto ai margini del vertice, ovvero nei cosiddetti incontri a latere, bilaterali e non solo, nei quali si sostanziano i suoi momenti più sensibili. Pensiamo all’incontro tra Regno Unito, Germania e Francia da un lato e Iran dall’altro, ovvero al bilaterale tra Joe Biden ed Emmanuel Macron e quello tra Mario Draghi e Recep Tayyip Erdogan.

Ebbene, in tale contesto lo spazio mediterraneo, la nevralgica dinamica libica correlata per diversi e cruciali versi a quella del Sahel un’assoluta priorità per il nostro Paese, hanno occupato un’attenzione particolare nell’economia di quegli incontri.

La più ricercata è stata probabilmente quella già citata tra Biden e Macron: si incrociavano da un lato, l’auspicata ricucitura dello strappo consumato ai danni della Francia nell’area indo-pacifica – cioè la perdita di una cospicua commessa di sottomarini a propulsione nucleare che gli Stati Uniti hanno sottratto a Parigi a favore dell’Australia (all’interno dell’accordo Aukus); dall’altro l’aspettativa francese di un maggior sostegno statunitense nell’area libico-saheliana avvelenata dalla diffusa presenza delle più diverse espressioni dell’estremismo di matrice islamico, nonché crocevia dei traffici di persone, armi, droga, eccetera.

Pace fatta? Diciamo di sì, peraltro annotando che Parigi non aveva poi alternativa al far buon viso a cattivo gioco, accettando le scuse che Biden ha voluto ricondurre ad un comportamento clumsy (goffo) ma che in realtà possiamo considerare di marca egemonica. In compenso Macron ha ottenuto l’assicurazione scritta della volontà americana per un’accresciuta cooperazione in quell’area saheliana e dunque dell’impegno ad apporti addizionali a sostegno dell’attività di antiterrorismo portato avanti da parte francese e altri paesi europei (tra cui l’Italia), nonché della promessa del rafforzamento della cooperazione multilaterale al G5 Sahel, ai suoi stati membri (Burkina Faso, Chad, Mali, Mauritania e Niger) e alla Minusma (UN Multidimensional Integrated Stabilization Mission) in Mali in correlazione con l’europea Takuba Task Force alla quale partecipa anche il nostro Paese.

Macron ha anche ottenuto che venisse sottolineata l’importanza della Conferenza internazionale del 12 novembre promossa da Parigi in vista dell’appuntamento elettorale del 24 dicembre in Libia. Conferenza che rappresenta l’ennesima velleità di presenzialismo francese e che ci si augura che serva almeno a favorire la tenuta delle elezioni del 24 dicembre vista l’ambiguità con cui Parigi ha da sempre strizzato l’occhio a Khalifa Haftar pur dichiarando ufficialmente il proprio allineamento alle indicazioni delle Nazioni Unite.

Superfluo sottolineare come questo dossier abbia rappresentato una priorità anche per il nostro Paese che non a caso è stato richiamato sia nell’incontro di Draghi con Biden che nel faccia a faccia con Erdogan dopo l’appellativo “dittatore” riservatogli dal nostro presidente del Consiglio e solo in parte medicato attraverso una telefonata.

Da parte di Biden non poteva esservi una maggiore manifestazione di consonanza anche riguardo a questo dossier e in larga misure anche sugli altri posti altri posti all’ordine del giorno, a conferma, si è sottolineato della solidità del “rapporto transatlantico”.

Assai più sfumato l’esito del colloquio con Erdogan, vessillifero di una democratura intrisa di nostalgie ottomane e di ambizioni islamiche all’insegna del cosiddetto islam politico e oggi insediatosi (anche) in Libia grazie alla colpevole inazione dell’Unione europea nel momento in cui Tripoli, minacciata da Haftar, aveva richiesto il suo intervento.

Tra i due ci sarebbe stato un “costruttivo scambio di vedute”, e si sarebbe parlato anche del modo di “rafforzare le relazioni bilaterali”. Così raccontano i ben informati. Verosimilmente Erdogan avrà valorizzato la svolta che l’intervento militare turco ha consentito, salvando Tripoli e Draghi avrà certamente sollecitato il suo interlocutore a favorire il positivo esito dell’ormai imminente processo elettorale e dei suoi immediati seguiti. Forse si è anche arrischiato a interrogarlo sulla risposta che si propone di dare alla richiesta di buona parte della dirigenza libica di un ritiro delle sue come di tutte le forze armate straniere, ben sapendo la prevedibile risposta dell’ospite.

È comunque importante che i due abbiano ritrovato un terreno di dialogo, necessario per il futuro di questo e di altri dossier relativi al Mediterraneo e dintorni.

Così come è importante che dalla Libia continuino a giungere indicazioni che sembrerebbero corroborare l’aspettativa dell’elezione presidenziale. Mi riferisco alla Conferenza sulla stabilizzazione della Libia del 21 ottobre scorso a sostegno della sovranità, indipendenza, integrità territoriale e unità nazionale della Libia cui hanno risposto positivamente e con forza le ambasciate di Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti. Ma mi riferisco anche alla prima candidatura ufficiale annunciata da Othman Abdul Jalil, già ministro dell’Educazione nel governo guidato da Fayez al-Serraj e l’attesa scesa in campo sia di Aguila Saleh Issa, già presidente del Parlamento sia dello stesso Haftar che in quella prospettiva ha abbandonato la divisa militare.

Quanto all’esito del G20 nel suo complesso vorrei far mia l’affermazione della cancelliera Angela Merkel: “Stiamo mandando un messaggio molto chiaro: siamo ancora più ambiziosi rispetto all’Accordo di Parigi”. E ciò va a promozione della presidenza italiana alla vigilia del vertice Onu di Glasgow.

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