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Da Roma a Glasgow, i successi di Draghi. Scrive l’amb. Marsilli

Di Marco Marsilli

Valutare molto favorevolmente quanto raggiunto nel corso della prima edizione in assoluto del G20 a guida italiana appare del tutto giustificato e corretto. Ecco perché, nell’analisi dell’ambasciatore Marco Marsilli, consigliere scientifico della Fondazione Icsa, già rappresentante permanente presso il Consiglio d’Europa e direttore centrale alla Farnesina per le questioni globali e i processi G8/G20

Gli organizzatori di ogni grande evento, soprattutto se preceduto da un difficile, costoso e prolungato impegno di preparazione, sono comprensibilmente inclini a descrivere con un eccesso di entusiasmo i risultati emersi grazie alla loro efficace leadership. Senza consultare gli archivi, sono pressoché certo che persino i padroni di casa danesi della sin qui più fallimentare “Conferenza delle Parti” sul clima, svoltasi a fine 2009 a Copenaghen, avranno tentato di valorizzare gli esiti scaturiti da, immaginiamo, un secondario “side event”, per dimostrare che, dopo tutto, qualche passo in avanti era stato anche da loro ottenuto.

Fatta questa premessa, valutare molto favorevolmente quanto raggiunto nel corso della prima edizione in assoluto del G20 a guida italiana, tenutasi a Roma gli scorsi 30 e 31 ottobre, appare del tutto giustificato e corretto. A tale inequivoco giudizio concorre il raggiungimento di risultati di grande spessore, in alcuni casi vanamente inseguiti in precedenti esercizi da diverse presidenze di quel foro multilaterale, risultati che, per comodità di consultazione, si elencano qui di seguito.

Primo, nel campo della lotta alla pandemia, l’intesa a vaccinare contro il Covid entro il 2022 il 70% della popolazione mondiale. Per rendersi conto della portata di tale impegno, è sufficiente sottolineare come nel continente africano le persone che hanno sin qui ricevuto le due dosi di prassi rappresentano la irrisoria percentuale del 3% degli abitanti. Secondo, nel settore finanziario, l’approvazione della tassa minima del 15% sugli utili delle imprese multinazionali (la cosiddetta “global minimum tax”) da versare nei Paesi sedi degli impianti di produzione, al fine di eludere le designazioni fiscali “di comodo”.

Terzo, sempre in campo finanziario, la destinazione agli Stati più poveri di 100 miliardi di dollari annui per far fronte alle esigenze nazionali di lotta al cambiamento climatico. Quarto, in campo industriale, la conclusione di un importante accordo fra Unione europea e Stati Uniti per l’eliminazione dei vigenti dazi e contro-dazi in materia di importazione di beni essenziali, quali acciaio ed alluminio, cui si aggiunge l’impegno statunitense a rafforzare le catene di approvvigionamento e ad affrontare i “colli di bottiglia” che ostacolano la ripresa dell’ economia mondiale dopo la pandemia.

Per essere esaustiva la lista degli “achievements” del G20 italiano andrebbe poi completata da una serie di eventi in formato più ristretto (quali la riunione a quattro fra Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Germania sulla questione nucleare in Iran) o strettamente bilaterali. In questa ultima categoria includiamo per la loro rilevanza e senza poterli citare tutti, l’incontro fra i presidenti Biden ed Erdogan, a chiarimento delle recenti gravi tensioni e quello dei ministri degli Esteri Blinken e Wang Yi sul futuro di Taiwan, tema su cui le rispettive, antitetiche posizioni sarebbero peraltro state decisamente confermate.

Non potendo essere specificamente ascritti al merito della presidenza di turno, è chiaro che anche tali riunioni “a margine” finiscano comunque per avvantaggiarsi del clima di collaborazione e distensione instaurato dal “padrone di casa”, nonché , quando necessario, dell’ approfondita attività preparatoria svolta dalla sua squadra di collaboratori. Da questo punto di vista, la organizzazione italiana (comprensiva dei momenti “extra ufficiali”, molto simpaticamente commentati dalla stampa anche internazionale), si è rivelata davvero impeccabile.

Dall’elenco di cui sopra manca, come facilmente verificabile, il “volet clima”, fra i più importanti dell’intero “pacchetto” varato nella Capitale e, oggi come oggi, verosimilmente il più sensibile e appariscente dal punto di vista mediatico, tenuto anche conto della strettissima contiguità con la Conferenza delle Parti (CoP 26) sul clima, da pochissimo apertasi a Glasgow. È questo, a mio avviso, il settore dove le valutazioni sul riconosciuto successo di Roma si caricano di qualche elemento di attenuazione, nonostante lo svolgimento di lunghe ed estenuanti trattative. Al riguardo, le parole pronunciate da una personalità di grande equilibrio quale il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, (“le mie speranze sono andate disattese, ma non definitivamente sotterrate”) evidenziano un percettibile grado di delusione a fronte della constatazione di come le immediate esigenze ambientali del globo terrestre non siano state pienamente accolte da un Foro che, lo si ricorda, raccoglie le Nazioni responsabili della produzione di quasi l’ 80% delle emissioni globali inquinanti.

Sotto accusa appare, in primo luogo, la mancata identificazione dell’ anno 2050 quale data limite per la “neutralità” (termine con cui si indica l’equilibrio fra emissioni di CO2 prodotte e quelle eliminate dall’ atmosfera), sostituita – su incontrastabile resistenza russa, cinese e indiana – dalla formula, più flessibile, “entro e vicino alla metà del secolo”. Talmente flessibile da essere interpretata dal ministro degli Esteri russo Lavrov (sotto lo sguardo compiaciuto di Putin, collegato ai lavori, così come l’omologo cinese Xi Jin-Ping, in video conferenza) con uno spostamento temporale di 10 anni, vale a dire al 2060. Un periodo probabilmente necessario per la riconversione di economie tecnologicamente non mature, in larghissima misura ancora dipendenti dall’energia prodotta dalle fonti fossili, ma che rischia di causare danni irreparabili al già fragile ecosistema del pianeta, come autorevolmente ricordato in più di una occasione da Papa Bergoglio.

È pur vero che, come correttamente sostenuto da molti osservatori, non prevedendo l’Accordo-base di Parigi del 2015 alcuna data per il conseguimento della neutralità, quella del 2050/2060 rappresenta comunque una prospettiva di cui tenere conto, in quanto tale preferibile alla mancanza totale di indicazioni. Anche la fissazione di un limite sotto 1,5 gradi di incremento per il surriscaldamento del pianeta (rispetto ai 2 gradi in origine previsti), appare un risultato più che accettabile, tenuto conto del fatto che in sede di G2O nulla può essere ottenuto senza un equilibrato bilanciamento degli interessi nazionali. Prova ne è che l’ India, non ritenendo adempiuta tale condizione, non ha sottoscritto impegni sulla propria neutralità, una circostanza preoccupante se si considera che, per quantità di emissioni, Delhi occupa un poco lusinghiero terzo posto, preceduta da Cina e Stati Uniti.

A questo punto l’attenzione generale si sposta su Glasgow e sulla 26ma Conferenza delle Parti a guida britannica (ma con compartecipazione italiana) chiamata a concretizzare e, auspicabilmente, ad andare oltre gli acquis del G20, soprattutto se troverà conferma la affermazione del nostro presidente del Consiglio secondo il quale “non sono i finanziamenti internazionali a costituire il problema”. Coerentemente, l’Italia ha annunciato a Roma la sua intenzione di incrementare sensibilmente la propria quota di versamenti al cosiddetto “green fund”. Aprendo i lavori in Scozia, il Premier Boris Johnson, bene esprimendo il senso dell’ urgenza, ha posizionato il virtuale orologio climatico a “un minuto prima della mezzanotte”, esortando la membership onusiana ad abbandonare le parole e le teorie per passare ai fatti. Per conoscere se il suo messaggio verrà, almeno in parte, dalla stessa accolto, sarà necessario attendere la mezzanotte (e forse qualche ora oltre) di venerdì, 12 novembre.

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