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Ddl Zan, Pd e piazze. La versione di Chiapello (Popolari/Italia Popolare)

Di Giancarlo Chiapello

Appare evidente che si sia aperto uno spazio in un tempo di necessario cambio dovuto alla tensione che il linguaggio realista dell’Agenda Draghi sta esercitando su un sistema partitico debole, in piena crisi. Uno spazio di centro nel senso di superamento del bipolarismo dell’odio, di dialogo e amicizia dai toni temperati. La risposta di Giancarlo Chiapello, segreteria nazionale Popolari/Italia Popolare, all’articolo di Francesco Nicodemo

Ad una lettura veloce dell’articolo di Francesco Nicodemo apparso su Formiche.net dal titolo “Ddl Zan e non solo, il Pd nel solco tra palazzi e piazza” si è costretti a rileggerlo: le parole di questa riflessione obbligano ad una analisi più approfondita delle questioni toccate ossia, il Ddl Zan come riconquista delle piazze, il tentativo di staccare rappresentanza parlamentare e popolo, grande vittoria elettorale alle amministrative da parte della sinistra. Serve l’approfondimento innanzitutto per comprendere se siamo di fronte ad una lettura della realtà o ad una narrazione mainstream.

Il primo punto si basa su una presunta maggioranza popolare schiacciante (su quella parlamentare si dovrebbe considerare la composizione dei gruppi, ad esempio di quello che ha la maggioranza relativa) a favore del testo che il segretario Enrico Letta ha fatto diventare una sorta di bandiera identitaria del Pd la cui identità è sempre più radical-progressista, nell’ottica del Partito Socialista Europeo: ora, questa maggioranza schiacciante è dubbia perché maggioritariamente nessuno nega il possibile inasprimento delle pene ma ben diversa è la questione del genere (art. 1, su cui le femministe e non solo si sono schierate contro) e della libertà di opinione. Considerando che in punta di diritto hanno ben argomentato, tra gli altri, il prof. Cesare Mirabelli e il Centro Studi Livatino, si può ricordare una delle domande fatta in un sondaggio pubblicato da La Stampa il 4 maggio di quest’anno, fonte Noto Sondaggi: “È favorevole o contrario che si possa liberamente decidere se si è uomo o donna a prescindere dal sesso di nascita, con una semplice autodichiarazione all’anagrafe o dal notaio, senza alcun atto medico, perizia o sentenza?”. Il risultato, che non pare cambiato sostanzialmente indicava 66% contrari, 14% non saprei, 20% favorevoli. Si potrebbe azzardare che sembrerebbe confermarsi la percentuale di voti del Pd, che appare lontana dal cinquanta più uno percento dei voti per parlare di maggioranza.

Qui si potrebbe ragionare sull’urgenza di una legge elettorale a base più democratica e meno grigia quale la proporzionale soprattutto in un sistema con formazioni partitiche elettoralmente equivalenti che continuerebbero a bloccare il sistema politico italiano che ha evidentemente bisogno di tornare ad un impianto europeo, fatto di famiglie e identità definite capaci di dinamicità e dialogo oggi “spintaneamente” determinato grazie all’autorevolezza del Presidente Draghi. Il tema non è stato divisivo? Non voglio aprire un confronto con la visione sociale di ispirazione cristiana su cui si radica il popolarismo, nettamente distante dal radical-progressismo (ma, infatti il Pd non può essere casa per un popolare) e dal desiderio di continuare a mantenere vivo il frontismo su cui ha prosperato una imbelle classe dirigente che vede destra e sinistra alleate strette nel mantenere un bipolarismo fallito (non foss’altro che negli ultimi 10 anni la sinistra ha governato più con la destra che con l’estrema sinistra sempre con la scusa dell’emergenza), mi limito a citare l’editoriale di Natalia Aspesi su La Repubblica del 31 ottobre dal titolo utile al caso “Cambiamo prospettiva”: “Io me ne stavo zitta zitta perché avendo la sfortuna di essere di sinistra fin dalla nascita temevo che sussurrando il minimo dubbio sull’efficacia del balsamo Zan e sulla probabilità di ottenerne l’approvazione sarei stata bollata oltre che di Alzheimer, di fascismo, di omofobia, di transfobia, con tutte le variabili”.

Sul momento del passaggio al Senato con le scene degli applausi scomposti che dire? Fanno il paio con alcune scene viste in passato ad esempio con l’approvazione della norma sulle unioni civili: l’Italia ha evidentemente, facendo una valutazione più generale, un problema di formazione di classe dirigente, ma non lo scopriamo adesso.

La questione però è un’altra: continuare nella narrazione populistica, che può essere di destra e di sinistra (e nel nostro Paese, purtroppo, causa frontismo, li abbiamo entrambi da un trentennio), del distacco tra “palazzi” e “popolo” è cosa utile soprattutto dopo un referendum costituzionale che ha ulteriormente ridotto la rappresentanza democratica dopo quella dovuta alla riduzione del numero dei consiglieri comunali e la trasformazione dei consigli provinciali e metropolitani in enti di secondo livello?

Parrebbe di no venendo al terzo punto dell’articolo di Francesco Nicodemo: la grande vittoria della sinistra alle amministrative avviene con la conferma che il partito maggioritario in Italia è quello dell’astensione, cioè i sindaci eletti, in particolare nei maggiori comuni, non governano per lo più con la maggioranza dei voti degli aventi diritto ma rappresentano minoranze. Prendiamo ad esempio il caso del ballottaggio di Torino facendo un raffronto tra le elezioni di cinque anni fa con la vittoria di Chiara Appendino e le ultime che hanno visto prevalere Stefano Lo Russo: Chiara Appendino vince con il 54,56% con 202.764 voti su Fassino che prende il 45,44% e 168.880 voti. Cinque anni dopo Lo Russo prevale su Paolo Damilano con 168.997 voti contro 116.322. Cioè il vincitore di quest’anno ha 117 voti in più del perdente precedente sempre dello stesso partito. Siamo ben oltre l’astensionismo fisiologico, il popolo, in particolare quello delle periferie territoriali e sociali, non si riconosce prevalentemente nell’odierna offerta politica che, forse, continua a fornire risposte senza ascoltare le domande.

La connessione sentimentale con le piazze dove starebbe fuori dai circuiti militanti? Bisognerebbe ricordare il socialista Pietro Nenni che di fronte alla sconfitta del fronte social-comunista nel 1948 ebbe a dire “piazze piene, urne vuote”.

In realtà, appare evidente che si sia aperto uno spazio in un tempo di necessario cambio dovuto alla tensione che il linguaggio realista dell’Agenda Draghi sta esercitando su un sistema partitico debole, in piena crisi. Uno spazio di centro nel senso di superamento del bipolarismo dell’odio, di dialogo e amicizia dai toni temperati, fuori dagli Ogm da Seconda repubblica quali i richiami al riformismo ed al moderatismo che puntano solo a rassemblement raccogliticci e ormai poco apprezzati dagli elettori, anche quando imperniati su un partito a vocazione governativa ad oltranza, che non dicono più nulla, che dia gambe all’azione draghiana e visione sociale concreta fuori dalle bandierine ideologiche ma dentro all’Europa con le sue famiglie politiche. Anche la partita per il Quirinale dovrebbe giocarsi con l’ambizione di agevolare il cambio di paradigma che deve ridare centralità alle assemblee elettive e fiducia rappresentativa ai cittadini, all’opposizione dello stato delle cose.

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