Vittorio Robiati Bendaud ripercorre le fasi storiche in cui la tradizione islamica e quella ebraica hanno convissuto, anche in virtù della “cittadinanza religiosa” concessa dai musulmani (a differenza dei cristiani). Tra monoteismo, sufismo e misticismo
Estratto da “Discutere in nome del cielo. Dialogo e dissenso nella tradizione ebraica”, con Ugo Volli, Guerini & Ass. (2021)
In relazione all’ebraismo, il Qur’àn e la Sunna, nella loro cogenza, alimentano varie concezioni. Tali concezioni si riverberano nella vita quotidiana di ebrei e musulmani, come pure nelle attitudini ideologiche – positive e negative – che, nei riguardi dell’ebraismo e degli ebrei, un fedele dell’Isla¯m può nutrire. Il Qur’àn non manca di sottolineare una certa prossimità e continuità di fede tra ebrei, cristiani e musulmani, talora elogiati per virtù religiose e morali.
Tuttavia, il Qur’àn spesso fa riferimento al loro esclusivismo, alla loro indisponibilità alla comprensione, alla loro testardaggine, invitando esplicitamente i musulmani a non affiliarsi a costoro, ma a separarsene e finanche a combatterli. (…) Tuttavia, l’Isla¯m concesse agli ebrei una sorta di «cittadinanza religiosa», negata nell’Europa cristiana, che permise, pur nella disparità (spesso dolorosa e umiliante), il costituirsi di secolari società islamo-giudaiche, in cui fu fondamentale il ruolo giocato dalla lingua araba, impiegata con amore e senza riserve dagli ebrei, che contribuì ad avvicinare, in qualche modo, ebrei e musulmani, dominati e dominatori.
(…) In età medievale, successivamente a una delle fasi più acute di intolleranza islamica e a fronte di migliaia di conversioni forzate patite, molti ebrei, disperati, si domandarono se, abbracciando l’Isla¯m, si commettesse idolatria, ovvero se l’Isla¯m fosse da considerarsi o meno un culto idolatrico.
Prima di Maimonide (1135-1204), alcune autorità rabbiniche -anche insigni- risposero affermativamente, e alcuni affrontarono il martirio (tra cui il suo maestro, il rabbino Yehudah Ibn Shushàn, ucciso nel 1165). Fu Maimonide, pur non risparmiando parole di ferma condanna per le persecuzioni patite, che stabilì, fissando così la normativa rabbinica ancora oggi vigente, che l’Isla¯m non è un culto idolatrico, nonostante certune pratiche cultuali adottate dall’Isla¯m avessero origini idolatriche (come le preghiere alla Ka‘aba, che in era preislamica fu un santuario pagano). Conseguentemente, per far salva la vita, gli ebrei potevano accettare la conversione forzata, continuando interiormente a professare l’ebraismo e facendovi ritorno appena possibile, abbandonando, se necessario, il luogo ove si trovassero.
Fu il fondamentale principio islamico del tawhìd, dell’Unità e Unicità di Dio, condiviso con l’ebraismo, a consentire a Maimonide di considerare l’Isla¯m pienamente monoteistico. Egli, tuttavia, era ben conscio del fatto che la fede islamica considerava alterata (tahrìf) e abrogata (naskh) la Torah (come pure, rispetto ai cristiani, i Vangeli). Maimonide quindi ribadì, conformemente al pensiero tradizionale ebraico, che il massimo livello di profezia possibile e sostenibile da un essere umano fu raggiunto da Mosé e che, conseguentemente, la Torah non poteva essere abrogata (nell’originale arabo, non accidentalmente, in senso polemico, ricorse esattamente al termine tecnico islamico naskh) da una successiva Rivelazione.
(…) Successivamente a Maimonide, taluni sapienti ebrei si spinsero oltre nell’apprezzare l’Isla¯m. Il caso limite fu quello dell’entusiasta pensatore averroista, medico e rabbino, Mosheh Narboni (1300-1362), che ritenne pienamente valida (contro la maggioranza delle opinioni), dal punto di vista religioso ebraico, la circoncisione dei musulmani e riconobbe altissimo valore e dignità alla preghiera islamica.
Prima di Maimonide, incontriamo il pensiero dell’influente mistico ebreo Bahyah ibn Paquda (XI sec.), che, nella sua opera più famosa, I doveri dei cuori – scritta in arabo –, a più riprese cita con venerazione gli insegnamenti del rabbino egiziano-babilonese Sa‘adyah Gaòn (IX-X sec). In un passo significativo de I doveri dei cuori si legge che: “… la parola «unità» si è diffusa nel linguaggio corrente dei monoteisti (…). Solo i migliori tra i monoteisti approfondiscono la sapienza, distinguono la creatura dal Creatore e conoscono i caratteri specifici dell’unità reale…”.
Significativamente incontriamo – sulla scorta di Sa‘adyah, come vedremo– l’espressione inclusiva monoteisti, dove la distinzione non è tanto tra ebrei e non ebrei, quanto tra i vari gradi di comprensione, tra i credenti, dell’unità divina che professano. Il fatto che non si faccia distinzione tra ebrei, cristiani e musulmani è comprovato dal fatto che Bahyah, nel preambolo, scriva che
“ho infiorato la mia opera di citazioni fatte dai Profeti e dagli scritti tradizionali dei Maestri della Sinagoga. Ho citato spesso i sapienti e i santi di tutte le comunità religiose, le cui parole sono giunte sino a noi. Spero che essi otterranno il consenso di tutti i cuori e che ciascuno attingerà della loro sapienza, così come ci si arricchisce dell’opera dei filosofi e della vita degli asceti. I nostri dottori, infatti, ci rimproverano di adottare l’idolatria dei gentili e di rigettare ciò che invece hanno di buono, poiché essi chiamano sapiente ogni uomo, sia pure idolatra, che pronunzia una parola di sapienza”.
Bahyah dimostra profonde affinità con i mistici della tradizione islamica, considerata –con ogni evidenza– a tutti gli effetti monoteista. Tuttavia, il nostro autore, con l’espressione «monoteisti» intende certamente anche il cristianesimo e i cristiani. In due passi epocali de I doveri dei cuori, testo che influenzò tantissimo la devozione e la mistica ebraica successive, Bahyah cita Gesù, definendolo, primo nella tradizione ebraica, “santo”. (…)
Ricorrendo all’espressione “monoteisti”, Bahyah si appoggia, tributandogli grandissimo rispetto e ammirazione, al già ricordato Sa‘adyah Gaòn, autorità rabbinica eminente e indiscussa, padre del pensiero ebraico post-talmudico. La sua opera fondamentale, Il Libro delle credenze e delle opinioni, composta anch’essa in lingua araba, è un testo rivoluzionario e innovativo, testimoniante un approccio assai moderno alle tematiche teologiche e metafisiche costitutive della fede di Israele. In esso, in ampia misura, ricorse, mutuandoli, al linguaggio e agli argomenti della teologia islamica coeva, adattandoli il più possibile al pensiero ebraico tradizionale, di matrice talmudica.
Recependo alcune argomentazioni teologiche islamiche circa la Creazione e l’Unità e Unicità di Dio, Sa‘adyah certamente non negava la natura monoteistica -e, quindi, non idolatrica- dell’Isla¯m. In un passo, ove il rabbino prende in esame il dogma trinitario cristiano, Sa‘adyah ritiene il cristianesimo un «monoteismo imperfetto» e, contestualmente, poco dopo, si riferisce, al plurale, alle «comunità dei monoteisti» (in arabo ma‘a¯shir al-muwah.h. id¯ın), associando all’ebraismo e all’Isla¯m anche il cristianesimo, rendendo così possibile la prospettiva sposata da Bahyah un secolo dopo.
(…) In tale ottica è rilevante che proprio il figlio di Maimonide, il rabbino e medico Avraham ben Maimòn (1186-1237), abbia aderito entusiasticamente e con ardore a un particolare movimento spirituale -di straordinario interesse e, al contempo, indicativo della positiva considerazione della spiritualità islamica da parte degli ebrei-, che animò l’ebraismo egiziano – ma non solo – del XIII secolo, il sufismo ebraico, di cui fu strenuo difensore. Nel suo commento alla Torah, Avraham cita con deferenza un suo maestro, anch’egli insigne esponente del movimento, Avraham he-Hasìd, che, sulla scia della peculiare teologia sufi dell’amore, insisteva sugli obiettivi e i principi spirituali della makhaàfa per Dio (il timor di Dio, in ebraico yiràt HaShem) e della mah.abba (l’amore per Dio, in ebraico ahavàth haShem).
Il nipote di Maimonide e figlio di Avraham, ‘Ovadyah ben Maimòn, fu autore di un particolare commento alla Bibbia, il Trattato della cisterna, in cui, per la prima volta, venne applicata alla Torah l’ermeneutica sufi. L’ultimo discendente di questa illustre famiglia, Davìd II ben Maimòn, fu esponente anch’egli del sufismo ebraico – testimonianza della relativamente lunga esistenza del movimento – e autore di un’altra opera del medesimo stampo, alla convergenza tra mistica islamica e mistica ebraica.