Giorgia Meloni non è nata ieri in politica. Se ha proferito parola, è forse non per smarcarsi (non almeno in questo contesto e momento), ma per cominciare a stanare alleati ed avversari in un gioco ove, va detto, nessuno si fida fino in fondo degli altri. La rubrica di Corrado Ocone
Una gaffe, una mera constatazione, o qualcosa di più? E quel che ne è scaturita è stata solo una tempesta in un bicchiere d’acqua causata da una frase maldestra? Non è dato saperlo, ma congetturare sì, soprattutto ora che l’incidente sembra sia rientrato. A scatenarlo ieri erano state le parole di Giorgia Meloni alla presentazione con Enrico Letta dell’ultimo libro di Bruno Vespa. Ad una precisa domanda del giornalista, la presidente di Fratelli d’Italia aveva non solo constatato che l’elezione al Colle di Silvio Berlusconi era difficile, ma che in qualche modo, rispondendo lui per primo alla richiesta di un tavolo comune di tutte le forze politiche lanciato dal Pd, lo stesso leader di Forza Italia aveva cominciato a fare marcia indietro ripiegando su una più minimalistica e realistica volontà di contare nell’elezione di altri al Quirinale.
Sembra che il Cavaliere, che senza la compattezza dei suoi alleati, non può nemmeno muoversi alla ricerca degli altri voti necessari a raggiungere il quorum (e comunque solo dalla quarta tornata), l’abbia presa male. Mentre subito dai dirigenti del partito si è tenuto a precisare che il tavolo chiesto da Enrico Letta era relativo alla manovra di bilancio e non all’elezione del nuovo Capo dello Stato.
Ma allora perché Meloni ha detto quelle parole? A me sembra che di tutte le ipotesi, la più verosimile sia quella non di spaccare il centrodestra, come pure qualcuno ha detto, ma di aiutare a farlo convergere sin da ora non su un qualsiasi nome alternativo bensì su quello di Mario Draghi.
Convergenza che indubbiamente faciliterebbe quella elezione quasi “plebiscitaria” dell’ex banchiere centrale già dal primo turno (come avvenne con Carlo Azeglio Ciampi) che sola è consona alla sua autorevolezza e al suo essere apartitico e super partes (in verità già Francesco Cossiga nel 1985 era stato eletto alla prima tornata ma, in quel caso, fu Ciriaco De Mita a intestarsi una regia che fu tutta “politica”).
Che a Meloni non convenga rompere con gli alleati è semplice capirlo, soprattutto in un sistema che ritornerà proporzionale: una cosa è essere all’opposizione ora, un’altra condannarsi ad esserlo a vita (che è un po’ quello che è finora accaduto a Marine Le Pen in Francia).
Ma, allora, perché la provocazione? Lasciando stare i pur richiamati sentimenti di gratitudine o ingratitudine, io credo che al fondo possa esserci un ragionamento e un doppio motivo politico: da una parte, l’ascesa di Draghi al Colle libererebbe il campo per la presidenza del Consiglio a nuova legislatura per lei stessa (che però dovrebbe risultare la più votata della coalizione in un contesto di vittoria del centrodestra) e forse porterebbe anche da subito a quelle elezioni politiche anticipate che permetterebbero a Fratelli d’Italia di capitalizzare i consensi ottenuto con l’opposizione (responsabile) all’attuale esecutivo; dall’altra, garantirebbe l’Europa anche nel caso di un futuro governo di destra.
Che dire? Tutto legittimo, ma anche tutto troppo intellettualistico. Troppe le variabili in campo e anche troppa l’imprevedibilità della politica per fare previsioni o strategie molto tempo prima di un “conclave” che, come la storia repubblicana insegna, ha deciso chi fosse “papa” sempre all’ultimo momento (e quasi sempre i papabili della vigilia son rimasti “cardinali”).
Anche questo però forse Giorgia, che non è nata ieri alla politica, lo sa. Se ha proferito parola, è forse non per smarcarsi (non almeno in questo contesto e momento), ma per cominciare a stanare alleati ed avversari in un gioco ove, va detto, nessuno si fida fino in fondo degli altri.