Gli ultimi a evocare speranzosi il “miracolo economico italiano” furono Silvio Berlusconi e Antonio Fazio, all’epoca presidente del Consiglio e governatore della Banca d’Italia. Sappiamo tutti com’è andata a finire, con il sogno berlusconiano arenato nelle secche del debito pubblico e della crescita zero e con il gran banchiere travolto dalle inchieste giudiziarie e costretto alle dimissioni.
Ma conviene riflettere sul “miracolo economico” soprattutto per prendere atto del superamento del paradigma socio-culturale vincente in quella stagione. Un periodo (anni Cinquanta-Sessanta) nel quale il “fai da te” trovò mille sentieri per affermarsi; nel quale l’intervento pubblico favorì la motorizzazione di massa; nel quale il risparmio privato fu indirizzato verso l’acquisto della casa anche sotto la spinta dei forti processi di inurbamento che facevano lievitare la domanda di edilizia abitativa. Un tempo nel quale furono liberati gli “spiriti animali”, ma con una caratterizzazione tutta italiana: il contadino si fece operaio della grande industria del nord (la Fiat su tutte), il muratore si improvvisò costruttore di condomini di periferia, il piccolo bottegaio fece il salto di qualità con il grande magazzino, gli artigiani posero le basi della piccola industria, gli industriali tornarono a progettare e a produrre di tutto, complice anche l’affermarsi della siderurgia e della chimica di Stato. E poi esplose la domanda di personale impiegatizio di cui lo Stato aveva un disperato bisogno per ammodernarsi. Per non dire del tacito accordo fra ceti produttivi e governi, in base al quale lo Stato chiudeva un occhio sull’evasione fiscale, in cambio del moltiplicarsi delle buste paga. Una miscela esplosiva di uomini, idee e progetti, in grado di rimettere in moto l’economia italiana che visse una fase espansiva e anche “sregolata” sino alla crisi petrolifera del 1973 che fu, per tutti, un brutto risveglio dal sogno italiano.
Nel frattempo, però, le famiglie italiane interiorizzarono i nuovi stili di vita, sostenendo con le loro scelte economiche due settori produttivi: l’auto e la casa. Anzi, la prima e la seconda auto. Talvolta, anche la terza e/o lo scooter. E ancora: la prima e poi la seconda casa. E qualcuno è riuscito persino a costruire una consistente rendita immobiliare. Così è venuto facile al governo Monti, il governo del rigore, individuare cosa tassare, senza dover studiare troppo. La pesante tassazione sull’auto e sui derivati dal petrolio hanno già prodotto un crollo del mercato dell’auto senza precedenti. L’imposizione dell’Imu che ha sostituito l’Ici, surclassandola negli importi complessivi, ha fatto il resto. Oramai non ci si può nascondere come questa sia la vera patrimoniale diffusa. Anche il mercato edilizio è praticamente paralizzato: non si compra e non si vende.
È la recessione, bellezza. Ma non c’è da scherzare. Piuttosto, bisogna interrogarsi sul come far ripartire il Paese, nella consapevolezza che i vecchi paradigmi sono tramontati e che anche questa volta dobbiamo, come cittadini, fare la nostra parte. Che non vuol dire solo pagare tutti, nessuno escluso, le tasse dovute; ma ripartire dal qui e ora. E dalle specificità italiane. A cominciare dalla forza attrattiva del nostro patrimonio ambientale, dalla tenuta della famiglia, dalla necessità di rifondare il welfare. Tre piste di lavoro vero per rivitalizzare l’economia italiana in una stagione di risorse pubbliche rarefatte e di faticosa gestione pubblica. Si tratta di riappropriarsi, come famiglie e come soggetti sociali organizzati, di cui il Paese è ricco per tradizione e per radicamento territoriale, della titolarità e della gestione di ambiti economici nei quali lo Stato fa fatica.
Perché non sottrarre alla mostruosa ed elefantiaca macchina dello Stato e delle sue diramazioni territoriali, una parte significativa della gestione ambientale? Non escluso neppure il ciclo dei rifiuti, del decoro urbano e della salvaguardia dei territori? Ancora più incisivo e significativo l’intervento ipotizzabile sul fronte del welfare comunitario e sussidiario. Occorre cioè costruire un welfare moderno che faccia leva sul concorso delle famiglie, delle organizzazioni sociali, del volontariato e delle imprese per rimodellare e arricchire di fantasia sociale e di partecipazione gli ambiti che sino ad oggi sono a carico quasi esclusivo dello Stato. Non lasciando fuori nulla dall’orizzonte di questo welfare partecipato, dalla sanità alla previdenza, dalla formazione all’assistenza, sino anche alle tutele attivabili nel mercato del lavoro. Non escludendo, anzi favorendo, un nuovo protagonismo delle famiglie che diventino il fulcro di una moderna “economia civile”. Gli ambiti nei quali le famiglie potrebbero espandere la loro iniziativa socio-economica vanno dalla cura dei figli e delle persone in condizione di non autosufficienza allo stesso sistema educativo. Va capovolta l’ottica: non attendersi dallo Stato l’inesigibile in termini di servizi, ma ottimizzare l’efficacia delle risorse pubbliche, attivando un meccanismo di domanda-offerta di servizi che parta dalle famiglie e dalle stesse famiglie ottenga risposta. Attivando imprese civili, fonte anche di una buona occupazione sottratta alla mediazione impropria della politica.
Solo fantasie? Certamente no, se mettiamo in conto, soprattutto nella fase di avvio, un investimento forte da parte delle famiglie in termini di gratuità e di dono. Una forte economia civile, infatti, dipende da un grande investimento nel dono. Difficile salvarsi, per un Paese, senza il contributo di tanti. Del resto, le famiglie italiane non hanno già fatto da sé, inventando quel mercato parallelo di servizi, esclusivamente privato, che è costituito dalle badanti? Si tratta di rimodellare domanda e offerta avvicinando lo sguardo: cosa è possibile fare nel nostro condominio, nel nostro quartiere, nel nostro paesino, nella nostra cittadina? A noi la chance, attraverso le famiglie, per costruire un welfare comunitario capace non solo di far crescere i beni relazionali, ma anche di incidere sul Pil. Sì, proprio il Prodotto interno lordo, che non è fatto solo di produzione ed esportazione, ma anche di servizi efficienti e meno costosi.
Consegnato alla Storia il “miracolo italiano”, più realisticamente possiamo ipotizzare un “progetto Italia”, che individui una leva per la crescita. L’altro ieri erano l’auto e la casa, beni massimamente familiari. Perché non costruire una fetta di benessere e di futuro sul welfare comunitario a trazione familiare?