Sarebbe un peccato se la giornata della lotta alla violenza contro le donne si celebrasse come un festival della parola politicamente corretta: un cerimoniale di donne, che parlano alle donne, più potere alle donne e, visto che è a tiro, è l’ora del Quirinale ad una donna. Ci sta tutto, per carità, ma non basta. Non basta più. La rubrica di Pino Pisicchio
Il rischio dell’istituzionalizzazione degli eventi è sempre quello di renderne sterile il contenuto. In un mondo globale che ormai procede per adesioni a ritualità innocue, infatti, la ripetizione all’infinito giocoforza toglie qualcosa di senso allo statuto dell’evento: il nome della cosa si mangia la cosa.
Sarebbe un peccato se la giornata della lotta alla violenza contro le donne si celebrasse come un festival della parola politicamente corretta: un cerimoniale di donne, che parlano alle donne, più potere alle donne e, visto che è a tiro, è l’ora del Quirinale ad una donna. Ci sta tutto, per carità, ma non basta. Non basta più. Occorre uno sforzo collettivo per uscire dalle rassicuranti catalogazioni in cui ci fa accomodare l’uso delle parole “politicamente corrette” e correre il rischio della verità.
Per stare alle parole di conio corrente, come femminicidio, abbiamo forse potuto verificare che l’ingresso di questo disturbante neologismo abbia fatto regredire la fattispecie dell’assassinio di donne inermi? Certo ha alimentato il compunto birignao del commentatore (quasi sempre commentatrice, così come al dicastero della famiglia sono tutte ministre, e ai vertici delle istituzioni finanziarie la rara avis Lagarde viene esibita come la madonna pellegrina per dire che le donne ormai sono arrivate dappertutto), ma non ha corretto ciò che dev’essere corretto: una mentalità primitiva dove il rettiliano soverchia l’homo sapiens sapiens.
Se diamo uno sguardo alle cronache degli assassinii con vittime le donne possiamo registrare un dato: l’assassino, spesso anche suicida, è un possessore professionale di arma da fuoco. Guardia giurata, per esempio, o anche proveniente dai ranghi militari. Non ho un repertorio statistico sotto gli occhi ma il racconto di questi eventi luttuosi prodotti da arma da fuoco si rintraccia in un significativo numero di casi e la pistola, o il fucile, non sono giocattoli che si trovano in casa per caso. Dunque l’assassino ha un rapporto con oggetti che sono simbolo dell’onnipotenza e, insieme, del trionfo del rettiliano che si annida in lui.
Noi procediamo con il rito consolatorio della condanna, e del ricordo il 25 novembre, ma forse anche non sarebbe sbagliato fare qualcosa subito per capire se quelle armi, che vengono rilasciate regolarmente dalle autorità, sono messe nelle mani giuste. Perché una cultura primitiva e la versione contemporanea della clava- la pistola- abbinate magari a disturbi comportamentali seri rappresentano il terreno di coltura in cui lo strappo con la realtà diventa un evento probabile. Ma non parliamo solo di uomini con la pistola: parliamo di ragazzi e della riproduzione nel quotidiano di ciò che traggono dai siti pornografici: quando il confine tra il lecito e il non lecito è incerto e la surrealtà prende il posto della realtà diventa complicato demarcare e spiegare. Quante violenze, di gruppo o di singoli predatori, sono perpetrate a danno di ragazze e ragazzine con queste modalità?
E infine le parole. Viviamo in un ambiente gonfio di parole violente: la comunicazione è affollata e allora per trovare il suo target deve diventare un urlo, un’invettiva, un’offesa. Lo impariamo dai talk show coi politici che incrociano tra loro turgide offese per impressionare il loro pubblico ( almeno così gli vien detto dai comunicatori professionisti). Lo attingiamo dai social che grondano di aggressioni che, se fossero pubblicate sulla carta stampata, farebbero la felicità degli avvocati querelanti. Lo abbiamo sentito nell’aria, densa di conflitto, forse accesa dai no-vax, ma c’era già in giro parecchia elettricità. Quando circola violenza così cieca colpisce tutti ma si fanno male i più fragili. Forse la recrudescenza degli atti violenti contro donne e bambini registrata nell’ultimo anno non è estranea alla cattività cui ci ha costretto il Covid.
Che possiamo fare? Se cominciassimo a togliere dalle nostre parole la carica di intolleranza che anima il discorso pubblico a qualcosa potrebbe servire. Anche per la causa delle donne. In ultimo: forse non sarebbe sbagliato dedicare questo 25 novembre alle donne afghane, perdute nel medioevo talebano, dove la violenza non è fatta solo di parole, da un mondo occidentale che si è messo dopo vent’anni a guardare da un’altra parte.