Commonwealth Fusion Systems conclude il round di finanziamento più massiccio di sempre per produrre elettricità pulita dal “sole artificiale” – rendendo redditizio il processo – entro il 2025. Ma la concorrenza sta fiorendo. Ecco perché gli investitori si stanno lanciando sulla fusione nucleare
Una startup in prima linea nella corsa verso la fusione nucleare ha appena annunciato di aver raccolto 1,8 miliardi di dollari nel secondo round di finanziamento, eclissando qualsiasi record precedente nel campo delle realtà private. Si tratta dell’americana Commonwealth Fusion Systems (Cfs), fondata da sei professori del Massachusetts Institute of Technology nel 2018 e subito sostenuta da Eni, che ne è azionista di maggioranza.
Questo è l’ultimo esempio palpabile dell’entusiasmo crescente degli investitori per la svolta tecnologica e soprattutto la sua praticabilità commerciale. Un sentimento che è stato descritto dal capo di un’altra startup del settore come “il momento SpaceX per la fusione”, amplificato dall’urgentissima ricerca di fonti di energia pulite. Tra i partecipanti al finanziamento di Cfs spuntano nomi d’impatto come Bill Gates, Jeff Bezos e George Soros, presenti mediante coalizioni di investitori, e grandi aziende come Google, Salesforce ed Equinor, la statale energetica norvegese. Oltre, naturalmente, al Cane a sei zampe.
Giusto lunedì la responsabile del Programma Fusione di Eni, Francesca Ferrazza, annunciava a Reuters che l’azienda era “molto interessata alla fusione” e “pronta ad aumentare gli investimenti” nel campo, confidando in una svolta verso “la produzione illimitata di elettricità pulita per alimentare città e industrie”. Phil Larochelle, un esperto di Breakthrough Energy Ventures (la coalizione fondata da Gates) parla della fusione come un momento nella storia umana equiparabile alla scoperta del fuoco.
A settembre Cfs è stata protagonista di un passo fondamentale verso il traguardo – di fatto imbrigliare la reazione che alimenta il Sole qui, sulla Terra -, cioè la creazione di superconduttori capaci di confinare il plasma incandescente nel reattore. Il prossimo obiettivo è creare il prototipo di una piccola centrale a fusione, non lontano da Boston, e dimostrarne validità e valore commerciale: occorre raggiungere la produzione netta di elettricità (estraendo più energia dalla reazione di quanta non se ne immetta, cosa che nessuno è ancora riuscito a fare) entro il 2025.
Fatto questo, la tecnologia sarebbe facile da impiegare rapidamente su larga scala, ha spiegato Bob Mumgaard, ad di Cfs: “basterebbe” soppiantare i reattori obsoleti con quelli nuovi e attaccarli alla stessa rete elettrica. Tony Donné, program manager del consorzio di ricerca Eurofusion, ha detto al WSJ che apprezza l’entusiasmo degli investitori ma avverte che per portare l’energia da fusione alla rete ci vorranno probabilmente dai 20 ai 30 anni. Però va anche considerato, come riporta la società di consulenza per la proprietà intellettuale IP Group, che molte delle innovazioni prodotte dalla ricerca saranno lucrative anche se prese singolarmente: gli stessi supermagneti di Cfs, per esempio, possono avere applicazioni in campo medico.
La controllata di Eni non è l’unica a correre. Secondo la Fusion Industry Association sono nate almeno 35 compagnie private che puntano allo stesso obiettivo di Cfs. Assieme, escludendo quest’ultima, rappresentano finanziamenti per oltre 2 miliardi. Una di esse, l’americana Helion, d’estate è diventata la prima azienda privata a riscaldare il plasma a 100 milioni di gradi, la “temperatura ideale” (secondo loro) per una centrale a fusione. Contemporaneamente ha iniziato i lavori per un impianto nello stato di Washington dove dimostrerà la produzione netta di elettricità entro il 2024.
Intanto sullo sfondo incombe ITER, l’esperimento più costoso al mondo dopo la Stazione spaziale internazionale. È un gigantesco reattore sperimentale a fusione in costruzione da circa tre decenni vicino a Marsiglia, in Francia. Il progetto da 20 miliardi di dollari è portato avanti da una coalizione internazionale (con Cina, Corea, Giappone, India Russia, Ue e Usa) e al netto di ulteriori ritardi dovrebbe entrare in azione entro la fine del decennio. Ma i progressi sono importanti: a maggio gli scienziati cinesi sono riusciti a mantenere il plasma alla temperatura record di 120 milioni di gradi per 101 secondi.
I tempi previsti di ITER (“la via” in latino) impediscono che il reattore possa alimentare intere città, come teoricamente può fare, prima del 2050. Ma Tim Luce, lo scienziato a capo dell’esperimento, ha detto che il loro obiettivo è semplicemente troppo ambizioso per qualsiasi attore del settore privato. “Questi altri concorrenti hanno una visione per fare qualcosa di più piccolo”, ha detto a Bloomberg, “ma non ho ancora visto [una prova] che dimostri che possano farcela. È la storia della tartaruga e della lepre, e noi siamo la tartaruga”.