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Da Gronchi a Ciampi, il Quirinale visto dagli Usa. Scrive La Palombara

Di Joseph La Palombara

Gronchi e quella cravatta in Michigan, Saragat e i bisticci con Nenni, Pertini e l’ombra di Maccanico. Joseph La Palombara, politologo americano dell’Università di Yale, racconta i “suoi” presidenti della Repubblica. Uno sguardo nel Palazzo del Quirinale, visto dagli Usa

La Repubblica italiana finora conta una dozzina di presidenti. Come nel resto d’Europa i presidenti, a volte più simili a re o regine, rappresentano lo Stato in occasioni speciali. Quando è necessario possono anche ricoprire ruoli politici di peso.

La Francia oggi costituisce un’importante eccezione, perché la costituzione attribuisce al presidente enormi poteri. Ad esempio, il presidente nomina il primo ministro e lo può anche rimuovere se necessario.

Enrico De Nicola, il primo presidente italiano, è entrato in carica all’indomani della Seconda Guerra mondiale, poco dopo la trasformazione dell’Italia in una repubblica costituzionale. Gli ha fatto seguito Luigi Einaudi, rimasto in carica per sette anni consecutivi. Rimane oggi uno dei presidenti più riveriti. Amato e noto anche, in seconda battuta, per il vino rosso che lui stesso produceva.

Ho conosciuto circa la metà dei presidenti italiani – alcuni solo di vista, altri sono stati grandi amici. A metà degli anni ’50 spesso incontravo Giovanni Gronchi e parlavamo insieme. Allora ero l’interprete di Mennen Williams, il governatore del Michigan. Ero uno dei tanti ammiratori di Gronchi.

Ci siamo contrati a Lansing, la capitale dello Stato. Un incontro cordiale. In Michigan eravamo convinti che Gronchi avrebbe avuto successo nella sua campagna per spostare la politica italiana a “sinistra”. Le cose sono andate un po’ diversamente. Il presidente confidava spesso che non sarebbe stato facile tenere in isolamento un terzo e più degli elettori italiani. Si sbagliava. Gli Stati Uniti ad esempio hanno fatto di tutto per tenere la sinistra italiana lontana dal potere.

Ricordo un Gronchi imbarazzato quando gli fu chiesto se avrebbe gradito una delle cravatte verdi a pois del governatore. Si trattava, almeno in America, di un noto segno di amicizia. Williams mi disse di sondare il presidente. Gronchi disse sì. Sembrò ancora più in imbarazzo quando il governatore si sfilò la sua stessa cravatta dal collo e gliela diede in mano al presidente, che a sua volta la porse al suo interprete. Mi chiedo cosa abbiano detto al Quirinale di quel bizzarro incontro i giorni successivi.

Shepard Stone, allora vicepresidente della Fondazione Ford, è la ragione per cui ho incontrato un altro presidente, Giuseppe Saragat. Stone era un grande esperto di politica europea. Aveva diretto la divisione Affari pubblici della Fondazione nella Germania post-bellica, lavorando sotto la direzione di John McCloy. Ne diceva meraviglie, al punto che credevo fossero parenti.

Stone era la persona ideale per guidare le tante attività della Fondazione Ford oltreoceano. C’erano posti, come l’India, dove la fondazione sembrava e in effetti era più importante dell’ambasciata americana. McGeorge Bundy, il presidente, voleva fosse così.

Stone voleva incontrare Giuseppe Saragat e parlarci. Alcuni miei amici in Italia lo aiutarono a fissare l’incontro. Stone fu impressionato dalla velocità e dalla semplicità con cui lo prepararono. Quando andammo al Quirinale ero il suo interprete, fu la mia prima introduzione nel palazzo. Rimasi colpito dall’altezza delle guardie speciali (i corazzieri, ndr) scelte per servire il presidente, mi adombravano.

Stone e Saragat si trovarono subito in sintonia. Saragat, un socialdemocratico e anche un grande amico degli Stati Uniti, lo trovò ben informato sulle vicende europee. Legarono alla grande.

Eravamo nel mezzo della Guerra fredda, e il presidente italiano era determinato a manifestare il suo personale, sentito atlantismo. La sua ostilità, e quella del suo partito, contro l’Urss e il Pci non poteva emergere più chiaramente durante l’incontro. Saragat non perse l’occasione di lamentarsi anche di Pietro Nenni e del suo Psi. Conosceva bene il movimento italiano dei lavoratori e sapeva che l’avevo studiato da vicino, probabilmente era stato informato dai leader socialdemocratici della Uil, allora guidata da un amico, Italo Viglianesi.

Diversi anni più tardi, ho incontrato di sfuggita al Quirinale il Presidente Sandro Pertini, grazie a un caro amico, Antonio Maccanico. Di lui rimasi subito impressionato. Maccanico allora era la persona più autorevole del Quirinale, lo show-man. Da molti se non tutti considerato il presidente de-facto del Paese. Negli anni si prese la responsabilità per alcuni scivoloni di Pertini. Il presidente non poteva chiedere un miglior numero due.

Ho conosciuto Carlo Azeglio Ciampi per vie indirette. Io e Constance (la moglie di La Palombara, ndr) siamo buoni amici di Andrea e Montse Manzella. La seconda, di origini spagnole, curatrice di uno dei più efficienti salotti della politica italiana. Cenare a casa Manzella solitamente significava incontrare alcune delle più importanti personalità della politica, dell’economia o della magistratura italiana. Nel suo soggiorno, appunto, ho conosciuto Ciampi.

Ciampi era sempre stato un aperto anti-fascista. Prima di diventare presidente, aveva diretto la Banca d’Italia e si era distinto in molti altri modi. Quando il suo Paese si trovò in guai seri, politici ed economici, fu chiamato a servire come capo di un “governo istituzionale”. Negli anni mi sono convinto che sia stato uno dei salvatori dell’Italia.

Considero amici altri due presidenti italiani, Francesco Cossiga e Giorgio Napolitano. Cossiga fu protagonista di una visita di successo alla mia Yale. I miei colleghi si aspettavano l’ennesimo, tremendo democristiano. Cossiga li lasciò sbalorditi discorrendo di educazione e ricerca. Ancora oggi a New Haven è ricordato soprattutto per un suo discorso sull’Erasmus.

Due pensieri mi sovvengono quando penso a Cossiga. Diede le dimissioni da ministro dell’Interno quando le Brigate Rosse sequestrarono e assassinarono Aldo Moro, per poi abbandonare il suo corpo a metà strada tra i quartier generali della Dc e del Pci. Cossiga si dimise: era il ministro dell’Interno, e la polizia non era riuscita a trovare Moro prima che fosse ucciso.

Ricordo che mi metteva in riga quando parlavo della magistratura italiana. Sapeva che consideravo i magistrati una minaccia alla democrazia italiana e voleva farmi ricredere. Una volta mi spiegò che sbagliavo a giudicare i magistrati italiani dai loro valori morali o etici. Sotto quel profilo, non erano migliori né più morali dei procuratori distrettuali americani eletti. Purtroppo non ha mai osato prenderli di petto. Come la grande maggioranza degli italiani al potere.

C’è poi il presidente Giorgio Napolitano, un vecchio, caro amico che ammiro molto e conosco dalla metà degli anni ’60. Era un leader dei cosiddetti “eurocomunisti”. Fu un successo clamoroso quando, negli anni ’70, fece visita e parlo a Yale e al Consiglio per le relazioni estere di New York.

Napolitano è l’unico italiano che è stata eletta per due volte come capo dello Stato. Io e Constance siamo stati suoi ospiti, sia al Quirinale, sia a cena a casa sua. Al mio novantesimo compleanno a Roma erano presenti entrambi, Napolitano e sua moglie Clio.

In quell’ultima occasione, il presidente si chiese come sia possible che io sia nato solo trenta giorni prima di lui. Gli risposi che aveva citato l’unica cosa in cui posso vantarmi di essergli superiore.

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