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L’amb. Talò spiega l’approccio italiano al nuovo Concetto strategico Nato

“Difesa collettiva, gestione delle crisi attraverso operazioni e sicurezza cooperativa attraverso i partenariati sono compiti da confermare”, spiega il nostro rappresentante al Consiglio atlantico

A giugno si terrà a Madrid un vertice Nato fondamentale, in cui dovrà essere approvato un nuovo Concetto strategico. Formiche.net ne ha parlato con l’ambasciatore Francesco Maria Talò, rappresentante permanente d’Italia presso il Consiglio atlantico a Bruxelles.

Perché si è reso necessario un nuovo Concetto strategico?

Si tratta di un appuntamento nient’affatto banale: a livello gerarchico, all’intento dell’Alleanza il Concetto strategico è secondo soltanto al Trattato di Washington. L’ultimo è datato 2010. Da allora molte cose sono cambiate: si parlava ancora di Russia come partner, la Cina veniva pressoché ignorata, vivevamo in un contesto militare con tre soli domini operativi: terra, mare e cielo.

Oggi, invece?

La Russia è diventata più assertiva non solo ad Est, come stiamo vedendo in questo periodo, ma anche al Sud con la presenza di gruppi tipo Wagner. La Cina è protagonista e la sua proiezione, anche in Africa, non può che interessare un’alleanza come la Nato, che rimane regionale, ma deve avere un approccio globale nel considerare ogni sfida che viene verso di noi. Inoltre, nel giro di pochi anni siamo arrivati a cinque domini operativi con l’aggiunta di spazio e cyber, che hanno caratteristiche del tutto particolari: sono trasversali, difficilmente inquadrabili in contesto territoriale e entrambi hanno una forte caratteristica tecnologica e intrinsecamente duale, ovvero sia civile che militare. Senza dimenticare le nuove grandi sfide che caratterizzano il XXI secolo e hanno un impatto anche sulla nostra sicurezza, come il cambiamento climatico, sul quale l’Italia ha avuto ruolo protagonista nel suscitare il dibattito nella Nato già da diverso tempo.

Il nuovo Concetto strategico partirà anche dall’esperienza in Afghanistan?

Il contesto attuale è fortemente segnato dalla fine di quell’esperienza durata 20 anni e con una conclusione che può rafforzare i rischi del terrorismo, la minaccia per noi più imminente. La Nato ha dato prova di maturità e onestà nell’analizzare le lezioni da apprendere, le cose da correggere e quelle di cui essere orgogliosi. Tuttavia, non dobbiamo trarre la conseguenza che l’Alleanza debba superare quella fondamentale ispirazione basata sui tre compiti principali del 2010: difesa collettiva, gestione delle crisi attraverso operazioni (come in Afghanistan) e sicurezza cooperativa attraverso i partenariati. L’Italia, assieme a un importante gruppo, ritiene che tutti e tre questi compiti vadano confermati.

Con Stati Uniti e Regno Unito sempre più impegnati nell’Indo-Pacifico, qual è il futuro della Nato?

Che sia gli Stati Uniti sia il Regno Unito abbiano una visione globale è chiaro. Per quanto riguarda l’attività operativa, la Nato rimane un’alleanza regionale per definizione: d’altronde, si chiama Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord. Ma ciò detto, in un mondo più piccolo e con sfide con vengono verso di noi, dobbiamo avere un approccio globale, una visione globale per agire localmente in un contesto peraltro che è comunque molto vasto. Questo vale anche per un Paese come l’Italia, grande esportatore, potenza marittima in un Mediterraneo sempre più nodo di traffici fondamentali verso Est. Tutto ciò richiede consapevolezza di questi elementi, ma anche il mantenimento della visione di un’alleanza che ha un’area definita di attività.

E a livello diplomatico?

La Nato come foro politico, non soltanto militare, è un’occasione per dimostrare che l’Alleanza può parlare con tutti. Rispetto a un Indo-Pacifico che cresce di importanza anche per motivi economici, abbiamo la necessità di farlo con Paesi come Corea del Sud, Giappone, Australia e Nuova Zelanda. Con questi, con cui abbiamo un partenariato formale, crescono i rapporti di dialogo su temi di comune interesse, e dunque si parla anche, inevitabilmente, di Cina.

Si parla sempre più spesso della necessità di collaborazione tra pubblico e privato per far fronte alle nuove sfide. Come si sta attrezzando la Nato?

Mi viene subito in mente il recente Nato Industry Forum ospitato a Roma, che ha visto il nostro Paese protagonista: istituzioni, ricerca e imprese insieme per i nostri interessi nazionali e per il mantenimento del nostro vantaggio tecnologico. Questo aspetto andrà sottolineato anche nel Concetto strategico: il vantaggio tecnologico del quale la Nato – l’Occidente in generale – ha goduto in tutta la sua storia, non è più scontato e dobbiamo impegnarci a mantenerlo puntando su innovazione, lavoro con imprese e industrie, che non sono soltanto più quelle tradizionali del complesso militare-industriale. È sempre più decisivo il settore duale collegato a tecnologie di punta che sono pervasive e rivoluzionarie, le cosiddette tecnologie emergenti e dirompenti come l’intelligenza artificiale, che ha problemi etici e giuridici su cui noi italiani siamo molto attenti, e la quantistica, per citarne due.

Chi è il buon diplomatico?

Alla rappresentanza alla Nato di Bruxelles lavoriamo fianco a fianco, diplomatici e militari. Anche alla luce di questa esperienza, credo che il diplomatico sia colui che, rappresentando la Repubblica nel suo insieme riesce a riaffermare interessi nazionali e valori, riuscendo a collegare nel modo migliore le straordinarie capacità dell’Italia. Con questo spirito possiamo valorizzare nel mondo tutte le risorse nazionali attraverso una visione d’insieme dei problemi sulla scena internazionale e delle soluzioni, con flessibilità, agilità e visione a 360 gradi in un mondo sempre più interconnesso e dinamico. Possiamo rappresentare nel mondo un’Italia più forte e sicura di sé, che proietta quindi forza e sicurezza a beneficio dei nostri cittadini e dei contesti multilaterali nei quali operiamo, un’Italia che ha recuperato il gusto del futuro.


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