Ai LeoniFiles, il podcast dell’Istituto Bruno Leoni, Amenta, Stagnaro, Generali (Assintel) e Minenna (PCdM) commentano lo studio Cispe coordinato dal Prof. Jenny (Ocse) che analizza gli effetti delle licenze software sulla concorrenza nel nascente mercato cloud europeo
Nella data economy la capacità di imprese, organizzazioni e istituzioni di creare valore passa inevitabilmente dalla loro abilità nel valorizzare i dati attraverso il cloud computing, una delle infrastrutture in grado di interpretare e realizzare il processo di transizione digitale tracciato dall’Unione europea con il Next Generation EU.
Essendo titolari della maggior parte delle operazioni informatiche di una organizzazione, i provider di servizi cloud sono partner di primo piano per favorire la digitalizzazione di imprese e amministrazioni pubbliche. E se il cloud rappresenta un abilitatore di crescita, il software ne è la forza motrice. Infatti, nel loro processo di innovazione le imprese cercano di passare a un modello di cloud “as-a-service” in cui le funzioni operative sono gestite dall’infrastruttura IT dei fornitori cloud, che elaborano i software aziendali e i database.
Per operare questo passaggio è fondamentale che le condizioni di accesso ai vari segmenti di mercato dei servizi digitali, primo tra tutti quello delle infrastrutture cloud, siano eque, agili e trasparenti. Tuttavia, la posizione dominante di alcune società di software nel dettare i termini delle licenze che abilitano l’ingresso all’ecosistema cloud rischia di ritardare il fondamentale passaggio delle imprese alla “nuvola” e minare la concorrenza nel mercato.
È questo il principale punto che emerge da un nuovo studio commissionato dal Cispe, l’associazione europea di categoria che riunisce i cloud service provider di cui sono parte anche molte aziende italiane. Il progetto di ricerca coordinato da Frédéric Jenny, professore emerito di economia all’Essec Paris Business e presidente del comitato per la concorrenza dell’Ocse, evidenzia come i termini di utilizzo delle licenze applicati da alcune società di software possono favorire distorsioni nel mercato del cloud soprattutto a discapito delle piccole e medie imprese. Il documento è stato inoltre presentato agli europarlamentari, ai membri della Commissione europea e del Consiglio, impegnati nel voto sul Digital Markets Act (Dma), per portare all’attenzione di Bruxelles le pratiche sleali che limitano la scelta delle imprese europee che cercano di passare al cloud.
Queste bad practices sono riconducibili ad una manciata di grandi aziende di software legacy che, attraverso vincoli tecnici, contrattuali e finanziari di utilizzo, rendono la migrazione ad altri ecosistemi cloud disponibili sul mercato inevitabilmente più costosa. All’origine del problema vi è la pratica di alcuni provider di collegare i prodotti software direttamente alla propria infrastruttura cloud generando meccanismi di “lock-in” per le organizzazioni che cercano di digitalizzarsi accedendo al mercato. Queste prassi includono l’uso di termini e costi diversi a seconda che il software sia usato in un data center dell’organizzazione, in un cloud appartenente al software provider o in un cloud di terze parti. In altri termini, sull’utente ricadono tre costi diversi per lo stesso software, utilizzato dagli stessi soggetti per la stessa attività, l’unica differenza è la sua collocazione.
Se non arginate, le cattive pratiche di licenza prefigurano uno scenario in cui potrebbe assistersi ad una contrazione dell’offerta dei servizi cloud a disposizione dei consumatori a fronte di prezzi più elevati. Il rischio, si legge dallo studio, è che queste condizioni “possano ledere in modo significativo la crescita, l’innovazione e la redditività dei fornitori di infrastrutture cloud europei e delle aziende che si affidano a loro”.
Nel podcast di Carlo Stagnaro e Carlo Amenta la voce delle industries è rappresentata da Paola Generali, presidente dell’Associazione nazionale delle imprese ICT (Assintel). Il tema della libertà di mercato acquista ancor più vigore in ragione della composizione della domanda dei servizi digitali, costituita prevalentemente da PMI che nell’imboccare la strada della trasformazione si affacciano al mercato.
Le cattive pratiche di licenza, prosegue, “sono perpetrate soprattutto attraverso l’enucleazione di clausole contrattuali complesse che disincentivano gli investimenti in innovazione con un impatto reale non solo sulle entreprise ma soprattutto sulle piccole aziende”. Per non impedire lo sviluppo economico del Paese le imprese devono infatti poter tornare indietro e accedere al mercato a condizioni economiche ragionevoli. Questo perché la digitalizzazione non dovrebbe mai essere percepita come un costo. Soprattutto in un periodo di grande consapevolezza istituzionale sulle opportunità che la trasformazione digitale promette di avere sulla crescita dell’economia.
Concorda Mauro Minenna, Capo del Dipartimento per la trasformazione digitale della Presidenza del Consiglio dei ministri, evidenziando a più riprese il ruolo del settore pubblico nello sviluppo delle condizioni economiche e strutturali che abilitano l’accesso all’innovazione. Lo Stato nella sua doppia veste di regolatore-investitore diviene un soggetto che, tutelando la concorrenza e il libero mercato, può contribuire a sviluppare le infrastrutture e le competenze per accompagnare il processo di digitalizzazione a tutti i livelli. Gli investimenti previsti dal Pnrr, ritiene, “rappresentano una opportunità per cambiare il nostro modo di lavorare e non escludere quella costellazione di soggetti attuatori di medie e piccole dimensioni che forniscono i servizi digitali per garantire il passaggio al cloud delle nostre imprese”. La sfida della digitalizzazione attiene soprattutto alla dimensione culturale e implica un cambio di paradigma verso l’organizzazione dei modelli operativi e di business in una logica di platform.
Considerando queste premesse, come affrontare l’effetto distorsivo delle licenze software? Il Cispe ha elaborato 10 principi di Fair Software Licensing per arginare il fenomeno del lock-in e sostenere la crescita dell’economia digitale. I cloud provider, comprese le compagnie di software indipendenti, sono invitati a sottoscriverli per incoraggiare il legislatore europeo ad includere tutte le prassi sleali portate all’attenzione nel Dma.
Generali e Minenna concordano sulla sovrabbondanza degli strumenti europei atti a regolamentare le innovazioni. Il digitale, notano, non è un settore ma una tecnologia che pervade tutta l’economia: questa porosità è all’origine della difficoltà che il diritto sconta nel regolare i fenomeni tecnologici. Per questa ragione, l’approccio “one size fits all” che prescrive l’adozione di regole uguali di fronte a modelli di business molto diversi è parecchio discutibile. “C’è bisogno di unire gli operatori che si muovono nell’ecosistema digitale”, conclude Paola Generali, “con strumenti agevoli, veloci ed adeguati quali codice di condotta e di autoregolamentazione”.