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Per Draghi è tempo (ancora) di ampia maggioranza. La bussola di Ocone

Il premier nella sua conferenza stampa di fine anno ha insistito sulle “ampie maggioranze” future. Forse con lo scopo “civile” di sferzare i partiti ad una loro maturazione. È ovvio che una normale dialettica democratica preveda la conflittualità politica fra i partiti, ma essa in Italia scade spesso in una sorta di “guerra civile”, in una vera e propria delegittimazione morale dell’avversario. La rubrica di Corrado Ocone

Come era prevedibile, la conferenza di fine anno di Mario Draghi non ha chiarito né le intenzioni del premier sul Quirinale né il destino del suo governo. Ognuno potrà fare congetture e trovare parti del discorso che avvalorano l’una o l’altra tesi. Da una parte, si dirà che il presidente del Consiglio ha quasi considerata conclusa la sua missione, dimenticando però che il discorso non poteva non essere che di bilancio data l’occasione; ma, dall’altra, è difficile pensare che altri se non ancora lui possa oggi tenere insieme tutti (o quasi) i partiti e garantire quella “maggioranza ampia” che pure è ancora necessaria all’Italia per sua esplicita ammissione.

Anzi, può dirsi che questa è l’unica indicazione chiara che emerge dalle parole del premier: egli ritiene che l’Italia abbia ancora bisogno di una Grosse Koalition come quella che fino all’altro ieri ha retto la Germania. E questo deve valere anche per l’elezione del Presidente della Repubblica. “È immaginabile – si è infatti retoricamente chiesto – una maggioranza che si spacchi sulla elezione del Presidente della Repubblica e si ricomponga nel sostegno al governo”? Nella sottintesa risposta negativa i più maliziosi potranno leggere un colpo assestato all’unica candidatura al Quirinale finora dichiarata, quella di Silvio Berlusconi, che sicuramente non potrebbe aspirare ad un’ampia maggioranza.

Fatto sta che, ad una domanda esplicita su questo punto, Draghi ha risposto che non spetta a lui “dare valutazioni su cose che esondano dal mio compito”. E qui può vedersi un altro degli elementi che sono emersi forti dal discorso: l’insistenza, persino enfatizzata, sul ruolo dei partiti e del Parlamento e il suo considerarsi un semplice uomo delle istituzioni, quasi un manager a cui è stato affidato un compito da Sergio Mattarella e che non ha fatto altro che eseguirlo con scrupolo. Sempre i suddetti maliziosi in questo leggeranno probabilmente sia una captatio benvolentiae verso chi comunque dovrà dargli fiducia per portarlo al Quirinale; oppure rileveranno che egli parla già come si conviene a un Presidente della Repubblica, cioè da uomo super partes e da umile servitore dello Stato.

Molto più realisticamente si può invece pensare che Draghi abbia esplicitato con molta franchezza la sua filosofia, che è quella di vivere (e fare il proprio dovere) nel presente, come ha detto, senza porsi troppo quesiti sul futuro, soprattutto quando non dipende lui. Il che, per quanto concerne la partita del Colle, non significa non avere ambizioni o disdegnare il ruolo. Né significa non avere carte da giocare. Una soprattutto, che è quella che si può leggere in controluce quando ha detto che il Capo dello Stato deve essere non tanto arbitro quanto garante. Una garanzia, potremmo aggiungere, che si dà con la credibilità, ispirando fiducia, che secondo Draghi deve essere la chiave di azione di tutto il nostro Paese.

A chi scrive piace poi pensare che avere insistito sulle “ampie maggioranze” future abbia avuto anche lo scopo “civile” di sferzare i partiti ad una loro maturazione. È ovvio che una normale dialettica democratica preveda la conflittualità politica fra i partiti, ma essa in Italia scade spesso in una sorta di “guerra civile”, in una vera e propria delegittimazione morale dell’avversario. Ed è questo il vizio endemico che ci penalizza in generale, e che non ci possiamo permettere in questo momento. Anche da questo punto però, ha fatto capire, ci siamo messi sulla giusta strada, con i partiti che sotto il suo governo hanno cominciato a collaborare in vista di un fine generale. Un lavoro che non può interrompersi e che va continuato fino al reciproco riconoscimento, nella diversità, che esige la democrazia.


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