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Rimborso elettorale, un tema che va affrontato (senza ipocrisia)

Il dibattito politico sul tema del finanziamento pubblico ai partiti, pardon sul rimborso elettorale, è un po’ come il jeans nell’abbigliamento di tutti i giorni: non passa mai di moda. E come il pratico tessuto – pensato originariamente dal geniale Levi Strauss quale indumento di lavoro per i cercatori d’oro americani impegnati nella Golden Rush di fine Ottocento – ha diviso e fatto discutere i puristi dell’eleganza, almeno fino a quando re Giorgio Armani lo ha definitivamente sdoganato all’inizio degli anni Ottanta, così quando si tratta di pubblico finanziamento per sostenere i costi della politica, o meglio dei partiti politici, l’opinione pubblica si divide tra favorevoli e contrari, accesi sostenitori e radicali abolizionisti. Vedremo come andrà a finire, ovvero se il governo Letta ce la farà ad essere come king Giorgio (lo stilista) e se i partiti che durante la campagna elettorale si erano dichiarati contrari manterranno fede alle loro promesse, Pdl in prims.

Ai più giovani è opportuno però ricordare che sul tema dei costi dell’attività dei partiti, quindi sulla loro necessità di reperire i fondi necessari per sostenerli, siano essi pubblici e leciti o privati e spesso meno leciti, abbiano avuto origine le vicende degli ultimi venti anni della nostra Repubblica, portando all’arrivo di un Cavaliere di Arcore e, di fatto, alla situazione attuale. Mi riferisco quella serie di avvenimenti degli inizi anni novanta che la cronaca e la storia hanno chiamato Tangentopoli, periodo legato indissolubilmente alla figura di un magistrato, Antonio Di Pietro, e di uno dei pochissimi leader politici che questo Paese abbia mai avuto, Bettino Craxi.

Il buon senso mi induce ad evitare commenti sul primo, mentre è interessante notare come il socialista Bettino Craxi fosse contrario al finanziamento pubblico ai partiti, ritenendo che il contributo dello Stato, ovvero dei cittadini, mascherasse una grande ipocrisia di fondo: quella di non essere sufficiente nemmeno per l’ordinaria gestione di un piccolo partito, rendendo necessario il ricorrere comunque alle sovvenzioni private. In particolare, Craxi sosteneva che i principali beneficiari dell’evoluzione economica e sociale del Paese attraverso la politica fossero soprattutto gli industriali, pertanto spettasse a loro sostenere le spese dei partiti. Da qui la sua convinzione che i paesi industrializzati sono democratici perché il denaro circola tra tutti i movimenti / partiti politici ed è proprio questo il meccanismo della vera democrazia. Non a caso, usava citare gli Stati Uniti d’America quale unico vero Paese democratico, dove le lobby (altro argomento di moda in questi mesi in Italia) si preoccupano di finanziare una parte politica affine ai propri interessi per facilitare il percorso di un determinato progetto di legge presso le istituzioni. Ed il partito finanziato? Rilascia poi regolare fattura e tutto viene fatto alla luce del sole.

Cosa avvenne poi da quel 1992 che segnò l’inizio di Tangentopoli è cosa nota, mentre la domanda sul perché si è investigato con accanimento su alcuni e non su altri è ancora priva di una risposta: difficile capire la logica che ha guidato la mano dei giudici e sono ancora fumosi i criteri seguiti nella scelta degli indagati. Nondimeno, senza voler entrare nel merito della vicenda, di fatto sulla questione del finanziamento illecito ai partiti si è ridotta in pezzi la Democrazia Cristiana, si è colpevolmente demonizzato Bettino Craxi ed il progetto di modernizzazione che rappresentava il suo guardare con favore ad un modello di repubblica dove il “decisionismo” governativo potesse essere il fattore principale per affrontare con tempismo ed efficacia i cambiamenti geopolitici già allora in embrione e che sono esplosi in seguito. E’ inoltre curioso che, allora, siano stati proprio i post-comunisti a pensare di godere i benefici di quell’ondata di giustizialismo e del conseguente vuoto di potere che si era creato, invece arrivò Silvio Berlusconi a mettere i bastoni tra le ruote e, probabilmente, non lo hanno ancora perdonato.

In conclusione, se da una parte è inutile guardare alla situazione attuale con lo specchietto retrovisore, dall’altra è indubbio che la vicenda Tangentopoli quantomeno ci insegna la centralità della questione finanziamento pubblico e le sue ripercussioni non solo economiche e giudiziali, bensì quelle legate alla vita democratica del Paese. Per evitare che in futuro qualcuno si alzi da uno scranno del Parlamento e puntando il dito verso i colleghi affermi “chi è senza peccato scagli la prima pietra”, per evitare poi vergognosi lanci di monetine, confido che si ponga fine ad una ipocrisia diffusa e si elimini definitivamente ciò che peraltro i cittadini hanno da tempo espresso di non volere, restituendo loro la dignità di saper valutare e decidere chi possa rappresentarli.


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