Oltre all’aspetto sportivo, il “caso Djokovic”, con il tennista fermato all’aeroporto di Melbourne per presunte irregolarità nella documentazione sanitaria, presenta anche delle ripercussioni politiche e sociali. La riflessione dell’ambasciatore Marco Marsilli, consigliere scientifico della Fondazione Icsa, già rappresentante permanente presso il Consiglio d’Europa e direttore centrale alla Farnesina per le questioni globali e i processi G8/G20
La vicenda del tennista serbo Novak “Nole” Djokovic, fermato all’aeroporto di Melbourne il 5 gennaio per asserite irregolarità relative al suo visto d’ingresso (documentazione sanitaria) e segregato per più giorni, su disposizione delle autorità australiane, in una struttura alberghiera di modestissimo livello, normalmente destinata ai richiedenti asilo politico e agli immigrati clandestini, si arricchisce pressoché ogni giorno di inattesi colpi di scena.
Nella mattina del 10 gennaio il Giudice federale Anthony Kelly, competente a esaminare il ricorso presentato dai legali del tennista contro il provvedimento di espulsione, ha in buona sostanza riconosciuto la “regolarità” della documentazione esibita da Djokovic al controllo doganale e, di conseguenza, autorizzato il suo ingresso nel paese, liberandolo dalla scomoda assegnazione. Senza perdere ulteriore tempo, il detentore di ben nove “Australian Open” (primato assoluto) ne ha subito approfittato per svolgere una seduta di allenamento.
Per conto del Governo federale, il ministro per l’Immigrazione Alex Hawke, prendendo ovviamente atto del provvedimento “assolutorio”, ha dichiarato di voler esercitare la prerogativa che gli attribuisce l’ultima parola in merito. Di conseguenza, a ventiquattr’ore da un verdetto giudiziale a lui favorevole, Djokovic potrebbe essere colpito da un provvedimento di rimozione dall’Australia, forse assortito da un divieto triennale di rimettervi piede.
La domanda che a questo punto sorge spontanea: perché dar corso a un iter giurisdizionale che potrebbe rivelarsi privo di conseguenze concrete, anche se (ma è una soddisfazione solo parziale) il significato morale rimarrebbe intatto. Qualora “cassato” da un atto di imperio dell’esecutivo, il già esistente clima di tensioni con la Serbia si farebbe ancora più “caldo”.
Si ricorderà, in proposito, il duro scambio dialettico a distanza intervenuto qualche giorno fra il premier australiano Scott Morrison (“Nel nostro paese le regole sono regole e nessuno può ritenersi al di sopra delle stesse” ) e il presidente serbo Aleksandar Vučić che aveva alimentato, se ve ne fosse stato bisogno, le sempre vigili corde nazionaliste dei suoi compatrioti con l’enfatica affermazione che “Djokovic è la Serbia e la Serbia è con lui”.
Come ogni “breaking news” che si rispetti, l’eco del “caso Djokovic” ha raggiunto una dimensione mondiale, con prese di posizione in tutti gli ambienti, compreso naturalmente quello tennistico. In un primo momento decisamente compatto nel ritenere “inammissibile” il comportamento del loro “numero uno”, esso fa registrare, dopo la chiara presa di posizione del giudice Kelly, qualche apertura nei suoi confronti.
In effetti, e su questo aspetto Djokovic appare francamente indifendibile, il suo atteggiamento nei confronti di una pandemia che è ormai prossima ad avere provocato nel mondo sei milioni di vittime, è stato sin dall’inizio improntato a una spavalda e quasi ostentata sottovalutazione. Ne forma la prova provata il torneo “Adria Tour” da lui organizzato in patria nel giugno 2020 a fronte di un continente già devastato dal nuovo flagello. Di detta fallimentare competizione nessuno ricorda il nome del vincitore, rimanendo viceversa ben vivo il ricordo collettivo dei numerosi partecipanti contagiati.
Un’ambiguità di fondo da cui non si sottrae, beninteso, la sua attuale situazione personale, in quanto a fronte di uno stato di positività emerso e accertato in data 16 dicembre (In un periodo, dunque, che giustificherebbe la richiesta alle autorità australiane di esenzione dalla vaccinazione) fanno da sconcertante contraltare una serie di evidenze fotografiche che, lungi dal riprenderlo in isolamento sanitario, lo immortalano, perfettamente a suo agio, come ospite d’onore in manifestazioni aperte al pubblico.
Indipendentemente dagli ultimi e controversi eventi “down under”, sulla figura del campione serbo (dal curriculum sportivo davvero impressionante, esemplificato dai venti titoli conquistati nel prestigioso circuito del Grande Slam) le opinioni sono ampiamente divergenti, arrivando a concentrare nella sua persona i personaggi di Dr. Jekyll e Mr. Hyde di Stevenson.
Note sono infatti le particolarissime condizioni in cui il giovane Novak si è trovato ad avviare la sua, in seguito fulgida, carriera sportiva (in una Belgrado profondamente segnata dai bombardamenti della Nato), così come sono note le sue imperscrutabili oscillazioni di umore (il caso emblematico della giudice di linea presa a pallate, le non rare intemperanze sul campo, e altri episodi).
Al tempo stesso sono altrettanto conosciuti, e apprezzati, anche i suoi innegabili atti di generosità, che non sembra corretto giustificare solo con un patrimonio personale cospicuamente alimentato dai successi tennistici e dai ricchissimi contratti di sponsorizzazione, e bensì derivare da un’autentica sensibilità ai drammi umani.
Si pensi alla consistente donazione a un ospedale italiano, in prima linea nella lotta al Covid (una scelta che sembrerebbe in contrasto con le sue personali convinzioni di “non vaccinato”) o, proprio in relazione alla “ingrata Australia”, allo stanziamento di fondi a suo tempo disposto per fare fronte agli impressionanti incendi boschivi che devastarono il Paese-continente nel corso del 2020
In conclusione, se a breve avremo modo di conoscere il “pronunciamento” finale del ministro australiano dell’Immigrazione, è fin d’ora evidente come da questa vicenda, che avrebbe meritato un ben diverso tipo di approccio, nessuna delle parti coinvolte possa uscire indenne sul piano dell’immagine.