Skip to main content

Liquidità americana

Si sono appena concluse le elezioni di Midterm per il Parlamento Usa. I risultati per il Congresso sono stati favorevoli ai repubblicani, i cui rappresentanti sono divenuti maggioranza, mentre al Senato i rappresentanti dei democratici, seppure di poco, mantengono il controllo. I motivi che hanno portato a questo esito elettorale, secondo una opinione largamente condivisa, vanno ricercati nella delusione degli elettori sui primi due anni di governo della amministrazione del presidente Obama. Sono infatti rimaste ancora sulla carta le due principali riforme: la riforma sanitaria e la riforma dei mercati finanziari.
principali riforme: la riforma sanitaria e la riforma dei mercati finanziari.
A queste palesi ragioni della sconfitta, se ne può aggiungere un’altra, molto meno evidente, che si può riassumere nella sensazione di una frustrazione di vedere il gigante cinese andare avanti come se la crisi non lo riguardasse. E ciò in presenza di rapporti commerciali crescenti tra i due Paesi con richieste sempre più insistenti da parte del governo americano al governo cinese di rivalutare il cambio dello yuan, che non trovano ascolto. Nel contempo le prime pagine dei giornali riportano ormai quotidianamente notizie positive sulle performance della Cina nei vari settori, tra cui l’ultima riguarda la ferrovia di 1500 km a 5mila metri di altitudine che collega il Tibet al resto del Paese, finita con un anno di anticipo, e la costruzione del più potente computer del mondo.
 
Che sia effetto della crisi o della frustrazione variamente intesa, certo è che gli americani hanno reagito con il voto, cambiando gli equilibri al Parlamento. La Fed, immediatamente dopo le elezioni, ha annunciato che acquisterà gradualmente nei prossimi mesi titoli di Stato per 600 miliardi di dollari, non specificando, se non genericamente, quale sia l’obiettivo che essa intende perseguire (il deprezzamento del dollaro per stimolare l’export?). Ma basterà? È scontato che questa iniezione di liquidità nell’economia americana contribuirà a mantenere bassi i tassi di interesse, mentre è dubbio che essa possa stimolare i consumi in misura consistente. Le banche Usa appaiono infatti più scrupolose nella concessione di prestiti alle famiglie. L’eccesso di debito privato, favorito dall’uso di carte di credito, è all’origine di tale prudenza, tant’è che da quando è scoppiata la crisi nel 2008 è in atto un razionamento del credito al consumo rispetto al passato che sta favorendo la crescita della propensione al risparmio. In principio, sembrerebbe che ciò valga meno per l’offerta di credito alle imprese, che dovrebbero essere favorite nei loro progetti di investimento da un più basso costo del danaro. Tuttavia va tenuto presente che prima della crisi le banche americane cartolarizzavano i crediti alle imprese e questo è presumibile abbia alimentato “l’azzardo morale” ad espanderne la quantità. Dopo la crisi queste procedure sono diventate più complesse e costose per via dei controlli accurati posti in essere dalle società di rating. Non è dunque per niente scontato che saranno le attività delle imprese le beneficiarie della aumentata liquidità. Ciò non è accaduto neanche nei mesi passati quando il governo americano per bloccare la caduta di fiducia nei confronti del sistema bancario ha messo a disposizione dell’economia quantità di dollari molto elevate (quantitative easing). Il tasso di inflazione, termometro dell’eccesso di domanda di beni e servizi, non ha però mostrato segni di crescita e ciò che è certo non ha provocato aumenti delle aspettative che ciò accadesse.
 
Da quando l’amministrazione americana ha iniziato a intervenire nei mercati, è stato invece il settore finanziario il maggiore beneficiario della accresciuta liquidità immessa dalla Fed nel sistema, sia sotto forma di ricapitalizzazione di alcuni importanti banche ed istituti finanziari sia sotto forma di maggiori disponibilità per operazioni di Borsa. La controprova è data dall’aumento degli indici: dall’inizio del 2010 il Dow Jones è cresciuto mediamente del 13%. Ma per il momento ciò non ha avuto “effetti ricchezza” significativi sulla ripresa dell’economia. Saranno allora solo i mercati finanziari a ricevere effetti di sostegno dall’aumento annunciato della liquidità?
In effetti c’è da aspettarsi qualcosa di più, vale a dire che la decisione della Fed sembra essere stata presa più per assicurare condizioni di stabilità che per accelerare la crescita dell’economia, permettendo ad Obama di disporre di 6 mesi e più, per riavviare i programmi orientati al raggiungimento di obiettivi strutturali. I repubblicani più estremisti e i tea party hanno criticato proprio per questo il governatore Bernanke. La politica monetaria è infatti uno strumento anticiclico, utile per invertire tendenze anomale che possono essere corrette nel breve periodo da un abbassamento dei tassi di interesse. Ma quando i tassi sono già prossimi allo zero, e la domanda interna è stagnante, come accade oggi negli Usa, “il cavallo non beve”, come sottolineava J. R. Hicks, quando, in Italia, negli anni ‘60 la crescita della liquidità a bassi tassi di interesse (l’acqua) non aveva portato ai risultati sperati, di vedere le imprese (il cavallo) aumentare la loro richiesta di finanziamenti al settore bancario. Qualcosa di simile alla trappola della liquidità si riscontra oggi negli Stati Uniti.
 
E se dovesse succedere che i consumi interni mostrassero segni importanti di ripresa, l’equilibrio esterno della economia americana verrebbe deteriorato ulteriormente, tenendo conto del tasso di cambio fisso dello yuan con il dollaro. Sono due le questioni che vanno richiamate a questo proposito. La prima riguarda i due deficit dell’economia Usa: il deficit del bilancio pubblico e il deficit della bilancia commerciale. Il primo è esploso a seguito della crisi e ha raggiunto il 10% del Pil, il secondo riguarda le importazioni nette rispetto al Pil, che hanno avuto un peso del 3,5% nel 2009, dopo aver raggiunto picchi più elevati negli anni precedenti. Poiché buona parte del deficit commerciale viene dalle importazioni dalla Cina, questa a sua volta registra un surplus che usa per acquistare titoli di Stato Usa (e finanziare il suo debito) e per aumentare le riserve della Banca centrale. Attualmente i titoli di Stato Usa acquistati dalla Cina equivalgono a 1,5 trilioni di dollari, mentre le riserve hanno raggiunto i 2,65 trilioni di dollari. Per questa ragione, la chiave della ripresa americana sta nell’invertire le tendenze del suo commercio estero che può essere favorito in primis dalla rivalutazione dello yuan. Specie nel settore manifatturiero, le aziende Usa si riforniscono di semilavorati in Cina, e quindi un aumento dello yuan e un deprezzamento del dollaro porterebbe ad un aumento dei prezzi dei prodotti cinesi importati. E questo ridurrebbe i consumi e riavvierebbe il riequilibrio dei conti con la Cina. Specularmente anche la Cina, esportando di meno, sarebbe spinta a misure di sostegno alla domanda interna.
 
L’alternativa non auspicabile alla rivalutazione dello yuan sarebbe l’introduzione da parte degli Stati Uniti di misure protezionistiche. Si ritornerebbe, dopo un lungo periodo di rapporti commerciali aperti, alla guerra dei dazi e dei contingentamenti. Né del resto si può pensare che il risultato di deprezzare il dollaro possa essere ottenuto con misure di politica monetaria “facili”, ovvero con l’espansione continua della liquidità al fine di determinare una più alta inflazione negli Stati Uniti. La “guerra delle monete”, se così la si vuole chiamare, finirebbe per danneggiare le famiglie americane che si troverebbero a fronteggiare le difficoltà causate ai loro bilanci dai prezzi in crescita. Né starebbe meglio la Cina di fronte a svalutazioni competitive del dollaro. Ne soffrirebbero le sue esportazioni, il valore delle sue riserve in dollari e il suo portafoglio di titoli di Stato Usa, con conseguenze non prevedibili per la stabilità della economia mondiale. Come si è detto, il senso di frustrazione dell’opinione pubblica americana ha molte componenti. Il cambio yuan/dollaro è quella più evidente, ma a questa bisogna aggiungerne almeno altre due che sono legate, la prima, ai grandi passi che la Cina ha fatto nelle tecnologie più avanzate, la seconda, “all’effetto paura” prodotto dalla “forza dei numeri” della sua demografia. Nella gara tecnologica tra i due Paesi, gli Stati Uniti sono ancora in testa, e possono mantenere il distacco investendo opportunamente in ricerca e formazione per ottenere aumenti di produttività. La sfida è difficile, ma non insuperabile, specie se l’economia transatlantica e la sua rappresentanza politica e istituzionale mostrassero maggiore propensione alla collaborazione e alla coesione. Non così nella demografia. La popolazione cinese sopravanza largamente quella degli Stati Uniti e dell’Europa messe insieme. Si muove lungo sentieri che mostrano come l’“esercito di riserva” rappresentato dalla sua popolazione straripante, non rappresenta più un problema, ma al contrario la soluzione alla crescita del Paese. Con una quantità di investimenti esteri mai vista in passato, importa tecnologia, beni strumentali e conoscenza da tutte le parti del mondo, specie euroamericane. Le imprese straniere sono felici delle prospettive che essa offre grazie a un’offerta di lavoro che pare infinitamente elastica a un salario medio molto al di sotto di quello dei Paesi più industrializzati. Da ciò derivano vantaggi competitivi enormi sul costo dei prodotti. Ragionare sulla Cina oggi significa tenere conto delle specificità del suo modello di sviluppo, che sottolineano quanto sia difficile la politica economica americana compresa tra la necessità dell’accordo valutario con il gigante asiatico e il quantitative easing, inefficace nel medio periodo.
 
Oggi la sua espansione è a 360 gradi e sta assumendo una forma simile a quella etichettata in passato come neo colonialista, con forme diverse, ma con contenuti di controllo delle risorse naturali analoghi all’espansionismo dell’Inghilterra nell’‘800. Se poi consideriamo che la Cina ha varato un piano enorme di rafforzamento della sua Marina militare, una simile conclusione non appare del tutto infondata. A che serviranno infatti i 100 sottomarini di nuova generazione, appena annunciati?


×

Iscriviti alla newsletter