La sanità italiana ha bisogno di una scossa, per riuscire a mantenersi al passo con il confronto europeo e per garantire anche in futuro un servizio che sia effettivamente universale. Ma è difficile che una risposta seria ai problemi e alle sfide del settore possa essere fornita da commissioni di saggi, come quella costituita dai dodici “esperti” del mondo della sanità e incaricata dalla regione Lombardia di valutare il sistema socio-sanitario lombardo, e suggerire interventi per migliorarlo. La critica alla decisione della giunta Maroni la spiega, in una conversazione con Formiche.net, Alberto Mingardi, direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni.
Il ricorso di chi governa ai saggi è diventato, come si legge nell’editoriale dell’Istituto Bruno Leoni, “una quasi stucchevole pratica di temporeggiamento e di illusionismo democratico”. Vero, ma il Paese resta comunque bloccato in attesa di riforme che non si attuano mai. No ai saggi, niente riforme. Come uscire dall’impasse?
Non mi sembra che i “saggi” siano un efficace lievito per le riforme. Per tutta una serie di ragioni, la più evidente delle quali è che le riforme, se sono tali, tendono a dividere, mentre le commissioni sono fatte per unire. Il ricorso massiccio a questi gruppi di saggi o “esperti” che dir si voglia si basa sull’ipotesi che esista una competenza “tecnica”, la quale consentirebbe di superare le divisioni politiche per raggiungere soluzioni assieme condivise e “giuste”. Semplicemente, le cose non stanno in questi termini. La riforma dello Stato, ma anche l’articolazione del sistema sanitario di una singola regione, richiedono scelte nette.
La mia impressione è che la politica faccia assegnamento su queste commissioni un po’ come i manager ricorrono ai consulenti: per evitare di prendere decisioni mettendoci la faccia.
Se guardiamo ai dodici saggi scelti dalla giunta Maroni, poi, c’è da mettersi le mani nei capelli. Con tutto il rispetto per le singole individualità, l’impressione è di un album delle figurine messo assieme con scarsa creatività, e quasi con l’intenzione di evitare che emergano idee nuove. Senza contare che si perpetua un vecchio equivoco: un bravo designer è essenziale per una buona azienda di automobili, ma non è a lui che ci si rivolge per capire come calibrare l’organizzazione. Lo stesso vale per un sistema sanitario e medici anche di straordinaria e acclarata bravura.
La Lombardia, si legge, “ha il più basso tasso di inefficienza sui costi totali positivi rispetto alla media nazionale e il miglior rapporto spesa sanitaria/Pil. Ciò in larga misura in ragione del fatto che il sistema sanitario lombardo, dal ’97, consente una per quanto larvata forma di concorrenza, lasciando che le strutture private affianchino quelle pubbliche nell’offerta di servizi sanitari”. Ma la critica a questa impostazione è che una privatizzazione troppo intensa della sanità mette a rischio la qualità dei servizi. Cosa ne pensa?
Non capisco quali sarebbero gli esempi circa la qualità dei servizi messa a repentaglio dalla “privatizzazione”. I casi Maugeri e San Raffaele Monte Tabor, è appena il caso di ricordare che si trattava di fondazioni non profit, non di privati mossi dalla ricerca del profitto.
La Lombardia ha oggi la migliore sanità d’Italia. Una delle ragioni per cui la sua è la sanità migliore d’Italia risiede nella parziale forma di competizione consentita nel perimetro della Regione: le funzioni di finanziatore ed erogatore del servizio sono state separate, e il finanziamento pertanto “segue il paziente”, anziché andare a sostenere le strutture ospedaliere. La presenza di una rete importante di erogatori di diritto privato è andata a tutto vantaggio del paziente, ha dato sostanza alla sua libertà di scelta, ha soprattutto consentito esperimenti imprenditoriali nella gestione di quelle macchine estremamente complesse che sono gli ospedali.
Il modello lombardo non è un modello compiutamente “di mercato”: il finanziamento resta pubblico, il ruolo del regolatore molto pesante, la componente pubblica ha un peso rilevante e questo influenza anche le scelte del governo regionale. Per questa ragione, per tutelare i “suoi” operatori e pertanto per ragioni di consenso, mi sembra che oggi il governo regionale sia orientato a tornare a una forma più “tradizionale” di pianificazione dell’offerta. Se si prosegue su quella strada, a rimetterci saremo noi lombardi.
Perché il modello ospedialiero privato si è rafforzato più in Lombardia che in altre regioni italiane? Dipende dal fatto che si tratta della regione più ricca d’Italia e che rappresenta dunque un mercato più redditizio?
A differenza delle altre Regioni, la Lombardia ha separato le funzioni di finanziatore ed erogatore del servizio, e si è attenuta a un sistema di accreditamenti “sensato”. Se vogliamo che si sviluppi una alternativa fatta di erogatori di diritto privato, dobbiamo consentire una qualche forma di competizione. Al contrario, nelle altre Regioni il privato è sostanzialmente residuale: il suo ruolo è già definito all’interno dello sforzo di pianificazione da parte del pubblico. Questo non significa che sia inutile, ma non trae vantaggio da quell’applicazione di intelligenza imprenditoriale che è il vero grande contributo che può dare il privato.
Come si spiega la stabilità dell’offerta sanitaria pubblico-privata nel tempo in Lombardia?
Questa è la grande questione sulla quale la Giunta Maroni dovrebbe insistere. Lo scenario competitivo è sostanzialmente “fermo” da inizio anni Duemila. L’equilibrio fra componente privata e componente pubblica è bloccato. Non abbiamo visto arrivare in Lombardia grandi operatori stranieri, ma soprattutto il governo regionale ha sostenuto con le unghie e con i denti la sua rete ospedaliera, evitando di considerare la possibilità di privatizzazioni o nuove partnership con il privato.
Il problema è che purtroppo la sostenibilità finanziaria della componente pubblica è a rischio, per i motivi che dicevamo poc’anzi. Un ospedale è una realtà complessa, che ha bisogno di capacità manageriali e imprenditoriali del genere che le burocrazie tendono a non sviluppare.
La buona manutenzione del sistema dovrebbe passare per una sua maggiore “contendibilità”. Invece i politici sembrano rimpiangere i piani quinquennali, oppure si esercitano a immaginare nuove grandi operazioni – direi quasi: “immobiliari”.
Nel 2010, secondo i dati Ocse, l’Italia ha speso il 7,4% del Pil per la sanità, la Germania l’8,9%, la Danimarca il 9,5%, il Belgio l’8%, l’Austria l’8,4% e la Francia il 9%. Una spesa inferiore rispetto agli altri Paesi Ocse. I tagli della spending review sono stati criticati anche da Gabriele Pelissero, presidente dell’Associazione Italiana Ospedalità Privata (Aiop). E’ il caso di aumentare la spesa pubblica nel settore dunque?
Mettere benzina in un serbatoio rotto serve a poco. Sicuramente i tagli possono avere aspetti problematici. Finché la sanità rimarrà ostaggio della burocrazia, la priorità politica sarà sempre la tutela del personale. Se si riducono le risorse ma il personale non si tocca, vuol dire che si va ad incidere sulle prestazioni, con effetti fortemente negativi per il paziente. In quest’ambito, la politica dovrebbe parlare il linguaggio della verità, e ragionare sulla misura nella quale, a fronte dei trend demografici, negli anni a venire il servizio sanitario universale può essere effettivamente mantenuto. Ci sono due strade. La prima è ricorrere al privato per fare efficienza e ridurre la pressione dei costi: come avvenuto in Germania. La seconda è ridurre il perimetro del servizio universale, non facendo finta di nulla ma stabilendo con grande trasparenza meccanismi di opt out. Scegliere l’una o l’altra via richiede comunque più coraggio politico di quanto si osservi di questi tempi.