Complice il film ora nelle sale “Monaco: sull’orlo della guerra”, Giuseppe Pennisi commenta la situazione Russia-Ucraina ripercorrendo la storia di quell’area dell’Europa
In questi giorni è nelle sale e in una delle principali piattaforme un film a cui il New York Times ha dedicato una recensione molto ampia, un “taglio” su sei colonne, certamente insolita per il maggiore quotidiano americano; Monaco: the edge of war (Monaco: sull’orlo della guerra). Jeremy Irons impersona Neville Chamberlain nei giorni della conferenza di Monaco del 1938. Al di là dei suoi meriti e demeriti artistici (è un thriller di spionaggio), il film conferma quanto gli studiosi sapevano da una ventina d’anni, ossia da quando vennero pubblicati i documenti diplomatici britannici: i servizi di Londra erano venuti in possesso, a Monaco, di un documento riservatissimo, il verbale di una riunione delle alte gerarchie naziste in cui si illustrava in dettaglio il programma tedesco di dominio sull’Europa. In questa luce, la celebre frase di Chamberlain, peace for our time, assume un significato differente da quello che le viene dato di solito: vuol dire “guadagniamo tempo (venne guadagnato un anno) per organizzarci”.
C’è una nuova crisi sul fronte orientale dell’Europa. L’Italia, presa in complicate elezioni del Capo dello Stato che mettono a nudo la frammentazione delle forze politiche e gettano seri dubbi sulla possibilità che la “larga coalizione” possa continuare a governare ancora per un anno, non sta giocando alcun ruolo, nonostante la lunga e tanto criticata riunione Zoom degli alti dirigenti di grandi imprese italiane con il Presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, testimoni i nostri legami con Mosca e la nostra tradizione democratica imponga difendere le scelte di uno Stato sovrano di allearsi con chi vuole.
Non credo che dobbiamo ritagliarci un ruolo di mediatori come quello che svolgemmo a Monaco nel 1938. Possiamo, però, ricordare almeno due cose importanti a Kiev e a Mosca.
All’Ucraina, occorre ricordare che la Rus’, il più antico stato degli slavi orientali, con al centro la città di Kiev, apparve per la prima volta tra il IX e il X secolo. Il suo territorio si estendeva dal Mar Baltico al Mar Nero, dal fiume Dnepr al Volga, attraverso la pianura esteuropea. Immerso nelle foreste al confine nordorientale di quella che in seguito sarebbe divenuta l’Europa, il nuovo Stato era indissolubilmente legato alla steppa che si apriva verso l’Asia. La pianura esteuropea fa parte di un vasto bassopiano che dai monti Carpazi in Romania si estende oltre la bassa catena degli Urali, attraversa la Siberia occidentale e finisce con l’altipiano della Siberia centrale al di là del fiume Enisej: si tratta di un’immensa distesa, interrotta da pochissimi rilievi, che unisce l’Asia all’Europa. Queste terre sono state chiamate in vari modi, ma in un recente studio David Christian ha dato loro il nome di Eurasia interna: una regione storica a tutti gli effetti, paragonabile alla nostra Europa, o all’India o all’Africa.
Inoltre, secondo la teoria più accreditata, il termine Rus’, con cui le popolazioni slave e finniche indicavano alcune stirpi di variaghi (o vichinghi) dovrebbe derivare dalla radice in antico norreno roðs o roths usata in ambito nautico con il significato di “gli uomini che remano”, in quanto remare era il principale modo di navigare i fiumi dell’Europa orientale e poteva essere legato all’area costiera svedese di Roslagen o Roden, come era noto nei tempi antichi. Il nome Rus’ avrebbe allora la stessa origine dei nomi usati nelle lingue finlandese ed estone per indicare gli Svedesi, Ruotsi e Rootsi. In seguito la parola Rus passò ad indicare non solamente più l’aristocrazia scandinava dell’Europa dell’Est ma tutte le popolazioni che risiedevano nei domini di questa. Il termine venne introdotto durante l’Alto Medioevo per indicare proprio le popolazioni scandinave che vivevano nelle regioni che attualmente fanno parte di Ucraina, Bielorussia e Russia occidentale. Oggi il territorio storico della Rus’ di Kiev è formato dalla Bielorussia, gran parte dei territori dell’Ucraina, parte dei territori della Russia occidentale, di una piccola parte dell’est della Slovacchia e di una piccola striscia di terra dell’est della Polonia.
Nell’Ottocento, la prima grande opera di teatro in musica russa Il Principe Igor di Alexander Borodin (composta tra il 1869 ed il 1886) tratta, con grande fervore patriottico, dell’eroismo di Igor’ Svjatoslavič di Novgorod-Severskij nell’antica Rus’ di Kiev contro gli invasori Cumani/Polovezi nel 1185. Mosca diventò capitale del Granducato e poi dell’Impero Russo solo nel 1713, quando il baricentro di quella che è oggi la Federazione Russa si spostò ad Est.
Ciò non vuole dire che l’Ucraina debba cedere alla pressioni di Putin e che l’Occidente non debba venire in suo aiuto in caso di necessità ma di rammentare alcune radici storiche che oggi Kiev tende ad ignorare.
Alla Federazione Russa, occorre ricordare che i suoi pericoli non sono nel giardinetto di fronte a casa volto ad Occidente ma nel giardino dietro casa volto ad Oriente per due ordini di ragioni: una climatica e una storica. Quella climatica è che per ragioni tecniche difficilmente arrestabili il riscaldamento in Siberia sta procedendo ad una velocità che è due volte e mezzo maggiore di quella del resto del continente. Già lo scorso novembre il Moscow Times avvertiva che la tundra è in fiamme anche oltre il circolo polare artico. Lo stesso Moscow Times ha recentemente avvertito che il 65% del territorio della Federazione Russa (in gran parte al di là degli Urali) è coperto da permagelo che si sta disgelando; la prospettiva è che diventerà molto fertile tra 200-300 anni ma nel frattempo non potrà essere la maggiore fonte di generi alimentari per la Federazione. Se vorrà mangiare, la Federazione dovrà rivolgersi all’Occidente.
Il secondo aspetto è storico. I veri Stan (a cominciare dal Kazakistan) sorti in Asia centrale dopo la fine dell’Impero zarista e di quello comunista, stanno ritrovando le loro radici, che sono uraliche (al pari di quelle della Finlandia, della Ungheria, della Turchia e della Corea). Il venti per cento della loro popolazione è di origine russa – giunta a partire dal Settecento man mano che l’Impero zarista di estendeva – ma l’ottanta per cento è di origine uralica ed è cresciuta molto rapidamente a ragione di un tasso di fertilità ben più sostenuto di quello dei russi. Parlano lingue simili e facilmente comprensibili in Corea, Turchia, Finlandia ed Ungheria in quanto sono popolazioni che transumarono dal Nord a ragione del cambiamento climatico (allora raffreddamento) avvenuto verso il quattordicesimo secolo. Soprattutto, le popolazioni più giovani, e più colte, stanno diventando sempre più insofferenti del ruolo di “grande protettore” che Putin vorrebbe avere. Guardano a Recep Tayyip Erdoğan, il quale ne è ben consapevole.
Non una nuova Monaco ma una lezione di storia e di climatologia che potrebbe contribuire a “peace for our time”.