Ci sono cose che non varrebbe neanche la pena evidenziare, tanto fanno parte dell’ethos di un popolo. Dello spirito di grandeur dei francesi o dell’american dream, oramai, parliamo solo quando sembrano sbiadire, logorati dalle avverse e mutate condizioni geopolitiche. Le buone abitudini nostrane, invece, sembrano un bene rifugio, in grado di resistere a ogni tipo di perturbazione macroeconomica.
La meravigliosa capacità degli italiani di sviscerare pubblicamente “vizi” e “peccati” privati come se fossero di interesse nazionale, e nel contempo considerare appena rilevanti problemi di etica pubblica, non può non lasciare ammirati. Di cosa si parla oggi: scandali sessuali, tangenti? Stavolta parliamo di qualcosa di (ancor) più terreno, ma proprio perché più legato alla quotidianità di molti, potenzialmente collegato alla nostra capacità di percepire la tematica dell’integrità. Mi riferisco ai festeggiamenti per la vittoria del ventottesimo scudetto della Juventus, ultimi (?) strascichi del primo di una lunga serie di scandali che stanno scuotendo dalle fondamenta miti e geografie pallonare.
Ancora scosso per la tragica vicenda di Morosini, il mondo del calcio aveva trascorso la settimana scorsa a soloneggiare a vario titolo su un fatto di mera violenza privata, elevato a caso da studio socio-antropologico sull’erosione delle istituzioni pedagogiche. La vicenda di un allenatore che aggredisce fisicamente un calciatore maleducato per averlo insultato in seguito ad una sostituzione ha scaldato gli animi di cronisti, opinionisti, politici. I giornali ci hanno offerto i più diversi contributi, tra chi, come Michele Serra o Mazzarri, si è immedesimato nello sconforto dell’allenatore, e chi ha tentato di ricostruire meticolosamente labiali e attribuire i peggiori improperi al giocatore: il tutto condito dalle esternazioni di moralisti della prima e dell’ultima ora.
Non era lecito attendersi da questi signori qualche parola su una delle più prestigiose società italiane, quotata in borsa, un tempo fiera portatrice di “signorilità”, che rivendica pubblicamente due titoli che la giustizia ha ritenuto viziati da illecito sportivo?
Sul merito del giudizio, peraltro, nessuno sembra questionare apertamente: la querelle al momento è ferma alla presunta “disparità di trattamento” rispetto a fatti analoghi rilevati da inchieste successive nei confronti di altre società, e sull’opportunità o meno di attribuire ad altri quei titoli, e al non diretto coinvolgimento della Juventus nelle azioni messe in atto dai suoi massimi dirigenti.
Marta Fana nel suo articolo evidenzia bene la tendenza degli italiani a diluire la percezione della corruzione – quantitativamente corretta – nel “così fan tutti”. Questo è un caso da antologia, perché a sollevarlo non è il frequentatore del bar sport, né un individuo – famoso o meno, con o senza cariche istituzionali: è una società centenaria, quotata in borsa, direttamente collegata alla Fiat e leader nella più grande industria italiana dell’intrattenimento. L’ingenuo e comprensibile sfottò di milioni di tifosi è trasformato in una rivendicazione di massa di beni a tutti gli effetti sequestrati dalla giustizia.
La Juventus, assieme a tutti gli sportivi e i tifosi, dovrebbe pretendere piuttosto l’annullamento di altri titoli; la sistematica persecuzione dell’illegalità che ha inquinato le gesta sportive di campioni come di umili gregari; la piena chiarezza e trasparenza sulle dinamiche dei prossimi campionati, di modo da poter concorrere e meritatamente conquistare la sua terza stella, grazie alla professionalità dei suoi dirigenti, la grinta del suo allenatore, la classe e l’intensità dei suoi giocatori.
Comportamenti diversi rischiano di alimentare la percezione che, nel regno dell’illegalità, la giustizia sia ridotta ad arbitrio, elemento di iniquità. E la percezione (come abbiamo visto con le misure della corruzione) può essere grave quanto e più della realtà, perché è in base alla percezione che gli individui formano opinioni e basano le proprie azioni. Dove tutti rubano, nell’impotenza – o indifferenza – dello Stato, chi accidentalmente incontra un giusto processo e finisce in galera è una vittima. E la legge, se abdica al suo primo fine – essere “uguale per tutti” – rimane vano simulacro, a uso e consumo di retori e burocrati.
Giacomo Gabbuti
Studente del Master of Science in Economics all´Università di Roma Tor Vergata, dopo la triennale in Economia Europea nella stessa università ed un Erasmus ad Istanbul. Ha collaborato con il progetto “Cultura dell´Integrità nella Pubblica Amministrazione” della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione.