Il termometro recita 40 gradi tra Aleppo e Damasco, le due città simbolo della guerra civile siriana, ma non è il meteo ciò che renderà l’estate siriana terribile, e probabilmente decisiva.
A due anni e mezzo dall’inizio degli scontri, l’idea di un accordo è considerata piuttosto realistica, ma è proprio l’avvicinarsi della resa dei conti diplomatica che fa pensare ad un’accelerazione della violenza, per arrivare al tavolo in condizioni migliori.
Misurata in termini di unità di comando, la situazione del fronte anti-Assad è molto complicata non solo sul terreno, ma anche dalle diverse filiere che si contendono l’influenza regionale. La Turchia, che alla fine del 2012 sembrava il perno dell’azione dei ribelli, si è ripiegata su se stessa in una crisi interna che ha punti di contatto con quella egiziana. Anche la Fratellanza musulmana del Cairo, in effetti, ha accarezzato l’idea di inviare truppe per rovesciare il Ba’ath Siriano, ma la crisi politico-militare in cui è precipitata ha fatto cadere questa ipotesi di coinvolgimento diretto. I due attori stabili dei sommovimenti regionali, Qatar e Arabia Saudita, sono in forte competizione tra di loro, il che impedisce alle monarchie del Golfo (inclusa Dubai) di fare quella massa critica che servirebbe, per esempio, alla diplomazia anglo-francese per imporre la propria linea all’Europa, e per tornare finalmente a contare a Est di Suez.
Gli Stati Uniti e la Nato hanno la visione più ampia della situazione e devono capire come conciliare due obiettivi strategici: la messa in sicurezza dell’arsenale missilistico siriano, in modo che non cada nelle mani dei jihadisti, e l’imperativo ideologico occidentale, quello che Fyodor Lukyonov su Russia in Global affairs ha definito “desiderio di riaffermare il modello di soluzione delle crisi locali tipico del post-Guerra fredda: scegliere la parte giusta in conflitto e aiutarla a salire al potere”. Sul primo punto può trovare l’appoggio della Russia, e coinvolgendola, ammorbidire anche la sua opposizione ideologica, che a tratti mira a sollevare la questione del multipolarismo in chiave anti-americana.
Secondo Scott Stewart di Stratfor, “una delle ragioni che giustificano la presenza americana a Bengasi” è gestire il traffico illegale di armi dalla Libia ai ribelli siriani. Estremi del realismo: “ogni missile portatile terra-aria SA-7b inviato in Siria per essere sparato contro gli elicotteri e gli aerei del regime è un missile in meno che prende la strada dei militanti della regione”, il Sahel e il Maghreb infestati di jihadisti. Il traffico tra Libia e Siria, passando da Turchia e Giordania, potrebbe contenere i danni, prima di un eventuale conferenza di pace, mettendo i ribelli in condizioni migliori al tavolo delle trattative.
Più che i costi e i conflitti diplomatici con Mosca, ciò che ha trattenuto Washington dal dare la spallata decisiva a Damasco è forse la paura, spegnendo quel focolaio, di riaccenderne altri in Nord Africa o perfino in Iraq, altra fonte di rifornimenti per gli estremisti sunniti.