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Il rischio di cambiare la legislazione sui porti. La lezione del prof. Carbone

Di Sergio Maria Carbone

L’attuale disciplina portuale italiana è fondata sull’appartenenza dei porti al demanio marittimo e tende a salvaguardare il ruolo e la funzione dello Stato su di essi rispetto alle politiche commerciali degli acquisitori esteri. Per questo, finché si salvaguarderà tale controllo, non sussistono rischi per le nostre strutture portuali. Il punto di Sergio M. Carbone, professore emerito di diritto dell’Unione europea presso l’Università di Genova

In questo momento storico, le sfide globali coinvolgono non solo il trasporto marittimo ma anche le infrastrutture ad esso relative. Così, le infrastrutture portuali europee e italiane manifestano tutta la loro importanza fondamentale. Da un punto di vista normativo, pertanto, l’Unione europea comprende i porti nell’ambito oggettivo che riguarda le infrastrutture, trattandosi di impianti essenziali per i traffici e i commerci, anche se tecnicamente si rifà solo ad alcuni principi molto generali, che trovano una disciplina più dettagliata e precisa nelle disposizioni normative dei singoli Stati membri.

In generale, comunque, è indubbio l’interesse di attrarre gli investimenti nei porti, soprattutto in quelli italiani, perché se da un lato accresce le risorse economiche a loro disposizione per adeguarli all’evoluzione dei traffici, dall’altro ne favorisce lo sviluppo economico. Sul tema, in questa fase, oramai da alcuni decenni, i rapporti tra Unione europea e Cina dimostrano un trend positivo che guarda non solo all’interscambio sulle materie prime, ma – soprattutto se si addiverrà alla ratifica del Comprehensive Agreement on Investment (Cai) del dicembre 2020 – anche a quello nel settore manifatturiero, l’accesso al quale la Cina non ha ancora aperto ad alcun partner industriale commerciale.

Questo è testimoniato dalla circostanza che attualmente la Repubblica popolare predilige un rapporto commerciale diretto anche per tali prodotti con l’Europa inesistente fino a trenta/quaranta anni fa.

Ma, nonostante tale evoluzione con riferimento alla normativa portuale, come in varie sedi sottolineato, l’Unione si presenta in una posizione di debolezza rispetto alla Cina che invece si caratterizza per un’unitarietà di disciplina e di governo del settore molto accentuata ed è quindi in grado di prevenire e gestire molto più efficacemente le eventuali minacce al controllo di tali infrastrutture e dei relativi traffici.

Dal punto di vista dell’Italia, il quadro normativo sul tema riguarda specificamente controlli sugli investimenti stranieri e le condizioni alle quali essi sono sottoposti nell’ambito dell’ordinamento italiano a protezione degli interessi nazionali: si tratta ad esempio della disciplina del golden power che consente l’intervento da parte del governo sulle principali e più importanti azioni e decisioni delle società che investono nel nostro Paese e nelle quali sono interessati capitali nazionali. Comunque, essendo l’attuale disciplina dei porti italiani fondata sull’appartenenza degli spazi portuali al demanio marittimo, essa tende a salvaguardare il ruolo e la funzione dello Stato su di essi rispetto alle politiche commerciali di eventuali acquisitori esteri.

Per questo, non sussistono rischi di utilizzo incoerente con le scelte di destinazione adottate dagli enti pubblici derivanti dagli investimenti stranieri per i nostri porti finché si salvaguarderà tale posizione di controllo dello Stato anche sulle più importanti decisioni delle società che si trovano a operare negli ambiti portuali per la gestione dei relativi traffici marittimi. In tal modo, infatti, si permette il condizionamento nell’accesso alle strutture portuali a servizio dei traffici provenienti dall’estero attraverso i controlli sulla proprietà e sui diritti di utilizzazione da parte delle relative imprese in coerenza con le scelte nazionali rilevanti al riguardo.

È significativo, comunque, che proprio in questo settore si tendano a realizzare e instaurare rapporti bilaterali tra i singoli Stati di appartenenza dei vari porti europei e la Cina, senza necessariamente transitare dall’unica esclusiva intermediazione dell’Ue di cui comunque devono essere rispettati anche in tale sede i principi fondamentali. Questa situazione sicuramente non favorisce la crescita del potere dell’Unione europea e costituisce un deficit importante ai fini della attuazione di una vera politica commerciale europea. Peraltro, così anche agli Stati che sono meno favorevoli a una completa e totale liberalizzazione dei traffici marittimi e portuali di governare questi rapporti sulla base di atti fortemente caratterizzati in senso pubblicistico.

Una parziale eccezione a questa logica è quella che si è realizzata in Grecia in presenza di una espressa volontà dello stesso governo di favorire una privatizzazione dei porti.  Sicuramente, anche da noi, se cambiasse la legislazione in tale direzione e quindi si modificasse il regime giuridico sui porti e sugli spazi portuali, si assisterebbe a una corrispondente disattivazione delle molte protezioni che attualmente esistono nel governo e nell’utilizzo degli spazi portuali.

In conclusione, a quest’ultimo riguardo, resta ancora ad oggi marginale il ruolo normativo e gestionale di una vera politica portuale dell’Unione europea e, in particolare, manca una compiuta normativa dell’Unione europea. Tanto che non si è neppure in condizione di governare adeguatamente gli evidenti effetti distorsivi suscettibili di derivare nella stessa logica concorrenziale in occasione degli investimenti stranieri extra-Ue. In questo senso, ad esempio, le limitate possibilità di intervento da parte dell’Ue e dei singoli Stati anche in presenza di possibili alterazioni provocate dai sussidi che alcuni governi garantiscono agli investimenti dei loro nazionali all’estero nell’ambito dei traffici marittimi e dei mercati portuali.

Si tratta di un profilo che, purtroppo, ancora oggi, sia nell’ambito dei rapporti bilaterali degli Stati membri con la Cina e sia in virtù degli strumenti multilaterali esistenti, compresi quelli del Wto, sembra poco considerato (tanto che al riguardo la Commissione europea ha, nel maggio 2021, presentato una proposta di regolamento attualmente ancora allo studio della legislazione Ue).

È, pertanto, a tali aspetti che i negoziatori nazionali ed europei degli accordi bilaterali con la Cina dovranno prestare la dovuta attuazione nell’attesa che l’Unione europea intervenga al riguardo con una propria disciplina di dettaglio che in ogni caso dovrà essere comunque rispettosa del regime proprio di ogni Stato della proprietà (demaniale) e dell’utilizzo pubblico di alcuni spazi e delle infrastrutture portuali in coerenza con gli equilibri commerciali dei vari “settori” merceologici ma soprattutto di quelli considerati rilevanti per la sicurezza nazionale.



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