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Phisikk du role – Cosa cela la guerrilla-tweet dei Cinque Stelle

Pino Pisicchio commenta il bombardamento armato dal “fuoco amico” contro Luigi Di Maio, leader storico del Movimento Cinque Stelle

Tra le macerie fumanti della politica dopo l’uragano quirinalizio s’intravede un nuovo canone del conflitto intrapartitico, che non va sottovalutato per la sua perfetta modernità e per l’attitudine a colpire chirurgicamente i suoi target interni. È il bombardamento armato dal “fuoco amico” contro Luigi Di Maio, leader storico del Movimento Cinque Stelle, attraverso gragnuolate di hashtag #DiMaioOut, tweet e insulti vari, con l’intento di dichiarare al mondo che il “popolo della Rete”, che poi dovrebbe coincidere col popolo dei militanti, non gradisce più l’ingombro del ministro degli Esteri.

L’atto di accusa è il medesimo mosso al giovane leader da Conte e censura la manifestazione di un dissenso del ministro rispetto alla conduzione delle trattative per il Quirinale. Il canone, se nella sostanza è stato riprodotto più volte nel percorso di trasformazione del Movimento dallo stato gassoso di groviglio di sentimenti antisistemici a forza di governo – si pensi solo al cospicuo catalogo di espulsioni che, insieme alle fughe volontarie, nella legislatura ha fatto registrare la cifra record di 108 defezioni, più di un terzo della consistenza originaria – stavolta ha un peso diverso.

Come ha un peso diverso dalle note storie di hackeraggio che hanno trovato spazio in politica ad opera di professionisti, nel recente passato sullo stile Cambridge Analytica. Anche qui operano professionisti della guerriglia in rete, ma hanno per obiettivo non l’avversario politico, bensì quello interno. Che si tratti di un’azione organizzata di tweet-bombing, per gettare la lettera scarlatta su un attore della dialettica politica interna, sembra dimostrato dall’evidenza di 289 account, in massima parte americani, puntati come missili strategici nell’etere che fa da spazio di dibattito del Movimento.

Chi abbia armato i missili e perché non è oggetto di queste note: ci interessa, invece, capire, fino a quanto può essere ancora agitata la mitologia dell’agorà digitale, senza procurare danni irrimediabili alla democrazia. Il Movimento ha fondato la sua forma politica sulla Rete, trasumanando dalla relazione interpersonale della dimensione terrena, costituita dalla sezione e dal congresso, all’ascesi eterea dell’impalpabile algoritmo. Adesso anche all’apoteosi dell’identità ambigua. Il tema allora incrocia più di un aspetto: il rapporto tra rete virtuale e decisione politica, la democrazia interna, il giusto porsi di una dialettica intrapartitica, lo jus puniendi del partito, cioè il diritto di sanzionare i comportamenti contrari agli interessi superiori del soggetto politico e con quali garanzie per gli incolpati, i limiti di applicabilità del web in politica, tanto per citare alcune evidenze. Cosa racconta, infatti, questo episodio se non la stanza vuota della regola democratica in quello che ci ostiniamo a chiamare partito (o, nella versione meno proterva, movimento) ma che altro non è se non un volatile stato d’animo del corpo elettorale catturato con l’ultimo spot del suo testimonial-conducator?

Notevole come, a distanza di 75 anni dal dibattito costituente, il tema della democrazia interna ai partiti, che anche allora suscitò importanti dialettiche tra chi rivendicava una sorta di extraterritorialità e chi invece invocava garanzie più stringenti per i militanti e le minoranze, resti ancora irrisolto. Proprio oggi che, con l’irrompere della Rete, la deregulation può equivalere all’azzeramento tout court della democrazia interna. Peccato, perché un uso regolato dello strumento digitale può effettivamente produrre un’espansione delle possibilità partecipative dei cittadini. Ma a condizioni precise, in cui la trasparenza e il controllo di autorità terze garanti, possano certificare la verità del processo democratico.


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