Un discorso né corto, né lungo, perfetto. Vero, denso, le parole come pietre. Ed è cambiato tutto. Finisce lo show ed entra l’Istituzione, certo, ma anche la politica, intesa come visione e come progetto. La rubrica di Pino Pisicchio
Il giuramento del Presidente: quando la politica con la P maiuscola rompe il recinto claustrofobico della comunicazione che si autocelebra. La settimana quirinalizia raccontata dai media come un grande show, si andava ad incastrare in un continuum un po’ straniante con la settimana sanremese e il suo solito chiacchiericcio di contorno alla musica ( scarsa ) e alle performance stranianti di Checco Zalone.
In questa dissoluzione di continuità s’incastrava, nell’allestimento dei media, il discorso di Sergio Mattarella davanti alle Camere riunite. Un discorso né corto, né lungo, perfetto. Vero, denso, le parole come pietre. Ed è cambiato tutto. Finisce lo show ed entra l’Istituzione, certo, ma anche la politica, intesa come visione e come progetto.
Mattarella ha allargato il suo abbraccio a tutti gli italiani, citando uomini e donne, generazioni giovani e non più giovani, poveri e no, facendo epicentro nella grundnorm della Costituzione, quell’articolo 3 che descrive il dovere della Repubblica di rimuovere le disuguaglianze che “impediscono il pieno sviluppo della persona umana”: il programma della politica che rivendichi il suo ruolo di motore del cambiamento.
Ma ha detto una parola che ha tolto a queste citazioni il retrogusto di una ritualità, di un “dovuto”: ha parlato di dignità. Una parola chiave che ha accostato alla politica, alle istituzioni, alla persona umana. “Dignità” è un programma che risuona di visioni lapiriane e morotee, di Maritain e di Mounier, della politica come servizio e non come apparenza. Perché dignità significa adempiere al proprio compito di funzionario pubblico- e di rappresentante del popolo- con “disciplina ed onore”, laddove disciplina è da intendersi partendo dal suo etimo latino “discere”, imparare, e dunque restituire ciò che si è appreso con “competenza”, parola, quest’ultima che Mattarella incarna in modo così impeccabile da rappresentare in se’ il monito perenne all’inadeguatezza del ceto politico.
“Onore” non avrebbe bisogno di spiegazioni ma solo di buone pratiche, cadute in desuetudine. Dignità dell’uomo ma anche dei partiti. Mattarella ha tracciato la via che indica la ripresa del ruolo costituzionale del partito politico, motore della democrazia moderna, un po’ in panne da un bel pezzo, con gli esiti deprimenti che proprio la settimana quirinalizia ha reso manifesti al mondo intero. Dignità delle istituzioni e delle riforme necessarie per consentire alle istituzioni rappresentative di riprendere a funzionare con pienezza dopo le troppe manomissioni apportate con interventi che hanno guardato agli istinti di un elettorato nutrito da un sentimento antiparlamentare, piuttosto che alla coerenza del sistema.
E non ha trascurato di puntare il dito nelle piaghe (lo dico al plurale anche per non citare le stravaganze dei nom de plume che circolano a Sanremo) della Magistratura italiana, indicando l’urgenza delle riforme di sistema. Tutto riporta la palla alle Camere: il cuore del sistema disegnato dalla Costituzione.
Il Presidente è tornato a giurare dinnanzi al Parlamento per la seconda volta, così come accadde nel 2013 per Napolitano. Ricordo personalmente- ero lì a votarlo-il discorso di Napolitano ai grandi elettori: duro, quasi un lungo rimprovero ad una scolaresca di ripetenti in una prima liceale. Più la sferza si levava contro la politica, più la politica batteva le mani, come a dire: “È vero, siamo degli incapaci, hai ragione!!”.
Mattarella ha usato toni e parole diverse: ha tracciato obiettivi e disegnato percorsi coerenti con la Costituzione di cui è supremo garante. Ha parlato di Politica, quella con la P maiuscola. La lingua della nostra Costituzione. In fondo per la politica ( quella con la p minuscola) sarebbe facile: basta seguire alla lettera.