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Ucraina, cronistoria di una crisi di intelligence

Mario Caligiuri, direttore del Master in intelligence dell’Università della Calabria e presidente della Società italiana di intelligence, ripercorre le tappe storiche della crisi in Ucraina. Una crisi anzitutto di intelligence, un rompicapo senza uguali per gli 007

Per capire che l’Ucraina fosse una patata bollente non occorreva che Putin ammassasse le truppe ai confini, tenendo il mondo con il fiato sospeso. L’Ucraina è sempre stata una linea di faglia, un punto caldo negli equilibri geopolitici del mondo: nel Novecento granaio dell’Urss e oggi punto di incrocio di canali energetici di primaria grandezza, dove transita il 37% del gas naturale diretto dalla Russia verso l’Unione Europea.

Quando l’Italia non era ancora uno Stato, e lo diventò grazie anche a questa intuizione, il Regno di Sardegna partecipò alla guerra di Crimea che si combatté dal 1853 al 1856, concludendosi con la sconfitta della Russia e l’avvicinamento del Piemonte alla Francia.

Nel 1954 Krusciov consentì che la Crimea fosse annessa all’Ucraina. Le tensioni sono rimaste forti ma la cortina di ferro ne ha attenuato se non ne annullato quasi completamente l’eco. Con la dissoluzione dell’impero sovietico, si è avuta la conferma che “Le nazioni non muoiono”, come scriveva all’epoca Roberto Morozzo della Rocca.

Nel 2004 Estonia, Lituania e Lettonia entrano nella Unione Europea e nella Nato. É alla fine dello stesso anno che la “rivoluzione arancione” a Kiev accende tante speranze contro gli ex oligarchi sovietici ma che naufraga nella paralisi istituzionale, mentre lo scontro tra filo russi e filo europei non accenna a placarsi.

Il punto di crisi recente avviene nel 2014. A febbraio il presidente filorusso Viktor Fedorovyč Janukovyč abbandona il Paese. Contemporaneamente militari russi senza insegne assumono il controllo della Crimea che proclama unilateralmente l’indipendenza l’11 marzo.

In aprile scoppia la guerra del Donbass, con la proclamazione di due stati indipendenti: la Repubblica Popolare di Doneck e la Repubblica Popolare di Lugansk. Le tensioni si attenuano con i protocolli di Minsk del settembre 2014 e del febbraio 2015 che sono peró interpretati diversamente da Russia e Ucraina e quindi non attuati. Infatti, non sono stati chiaramente definiti i punti di crisi rappresentati dalla questione della Crimea, dell’autonomia della regione del Donbass e della possibile adesione dell’Ucraina alla Nato.

Prima l’istituzione del Califfato nel giugno del 2014, poi gli attentati terroristici in Europa del 2015-2017, poi ancora la pandemia dal febbraio 2020 e infine le elezioni presidenziali americane del novembre 2020 hanno messo in secondo piano una evidente area di crisi. I commenti in questi giorni sono numerosi, richiedendo l’esercizio della lucidità, in quanto l’abbondante flusso di informazioni allontana inevitabilmente dalla comprensione della realtà.

A riguardo, ho molto apprezzato le profonde interpretazioni di Lucio Caracciolo, le contestualizzazioni di Giorgio Cella nel suo volume “Storia e geopolitica della crisi ucraina”, pubblicato nel settembre del 2021, e la previggente analisi di Francesco Mercuri sul sito della Socint nell’aprile del 2021. In questo breve articolo, ho cercato faticosamente di unire i punti di una situazione tremendamente complessa.

Si tratta di uno scontro che si può considerare paradigmatico, combattuto nella dimensione ibrida e senza limiti, con il concorso di guerra dell’informazione, conflitto limitato sul campo, attacchi cibernetici, operazioni sotterranee dell’intelligence e visibili della diplomazia.

Una vicenda che si presta evidentemente a innumerevoli letture. Quelli che nel 1981 Alberto Ronchey, in un ben differente scenario geopolitico, definiva “giganti malati” sono molto divisi al loro interno. Gli Usa sono spaccati in due tra visione del mondo identificata in Joe Biden e in Donald Trump, mentre nella Russia di Vladimir Putin accade che gli oppositori politici vengano avvelenati, arrestati (come Alexei Navalny, che è di origini ucraine) e giornalisti uccisi (Anna Politkovskaja, nel 2006, molto critica per un altro conflitto, quello ceceno).

Entrambe le superpotenze sono investite in modo potente dalla pandemia. E sulle rispettive pubbliche opinioni nazionali si sperimentano distrazioni di massa per allontanarle dai problemi reali.

La Cia aveva anticipato con tanto di data l’invasione dell’Ucraina, che doveva avvenire mercoledì scorso. Intanto gli Usa hanno fatto avvicinare come non mai Russia e Cina. La prima per dimostrare che ha al suo fianco la potenza mondiale emergente, quella che potrebbe fare scoppiare “la trappola di Tucidide”; la seconda per vedere “l’effetto che fa” la vicenda ucraina, in modo da constatare cosa potrebbe eventualmente avvenire in caso dell’accelerazione delle rivendicazioni su Taiwan.

Che l’intelligence sia all’opera in queste settimane al calor bianco è fuor di dubbio. I risultati, quelli veri e seri, non appaiono certo sulle prime pagine dei giornali. Di sicuro le operazioni dei Servizi hanno una parte rilevante nella guerra dell’informazione che è potentemente in atto e che speriamo possa trasformarsi nella versione di “peacekeeping”, cioè nell’utilizzo delle informazioni come sostituto del conflitto.

Basteranno? Di sicuro le informazioni, nella società della disinformazione permanente e intenzionale in cui siamo immersi, avranno un ruolo sempre maggiore nel determinare l’ordine mondiale. Non a caso, un attento studioso dell’intelligence, Aldo Giannuli, qualche anno fa ci ha fatto riflettere su “Come i servizi segreti usano i media”. Le agenzie di intelligence non hanno certamente l’esclusiva nella manipolazione delle informazioni, essendo in compagnia di governi, partiti, multinazionali, mafie e organizzazioni terroristiche.

Nelle prossime settimane potremo constatare se tra Ucraina e Russia, cioè tra Occidente e alleanza russo-cinese, prevarrà la guerra delle informazioni. Probabilmente sì. Ma stavolta le capacità delle élite politiche, e degli apparati che le sostengono, saranno determinanti.

La Prima guerra mondiale scoppiò perché le classi dirigenti dell’epoca non si resero conto delle conseguenze delle loro azioni. “Sonnambuli” le ha definite lo storico australiano Christopher Clark. Speriamo si sveglino in tempo.


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