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Il Golfo e l’Ucraina. Diplomazia sul filo (spinato)

Di Armando Sanguini

Utilitarismo? Affari? Convenienze politiche? Cosa guida la diplomazia del Golfo di fronte all’invasione russa in Ucraina? Dal Qatar agli Emirati, perché la reazione non è scontata. L’analisi dell’ambasciatore Armando Sanguini, senior advisor dell’Ispi

La prima settimana di marzo si sta chiudendo all’insegna di un sempre più fitto garbuglio di voci e di immagini che tutto fanno salvo tracciare un orizzonte nitido e tanto meno confortante: ciò che è chiaro è che sull’Ucraina sembra stringersi un nodo scorsoio irto di aghi e schegge di vetro che stanno creando insensate lacerazioni umane e materiali.

Si tratta di penalità che al di là delle chiacchiere e delle deprecazioni non trovano compensazione nel pur ammirevole orgoglio della popolazione ucraina; e non sono alleviate nelle “sanzioni” che sì, daranno pure fastidio ad una certa élite del potere russo, ma sono fatalmente destinate a mordere la carne di una popolazione che già non viveva nel benessere prima dell’attacco militare pianificato da Putin.

È vero, potrebbero far traballare questo ultraventennale padrone della Russia, ma non è affatto garantito che una sua dipartita non ci faccia cadere dalla padella alla brace.

La somma algebrica di queste considerazioni dà il risultato di due popolazioni in sofferenza e a rischio di ulteriore sofferenza; per la criminale prepotenza di un autocrate e per un’asimmetria (sanzioni contro armi) che sarebbe a dir poco ingenuo – e forse solo ipocrita – ritenere di efficacia equivalente.

Si discute e molto sulla guerra “giusta” o ingiusta, sull’opportunità o meno della decisione di fornire armi all’Ucraina, si invoca la diplomazia ma nei fatti non ci si arrischia a evocare l’inevitabilità di qualsivoglia sforzo diplomatico: il “do ut des”, cioè il possibile compromesso e dunque anche la via d’uscita che potrebbe essere accettabile da Putin.

Qualcuno ne parla per la verità ma è soverchiato dalla “follia zarista” di Putin. E si lascia che Jens Stoltenberg (S.G. della Nato) continui a gettare olio sul fuoco, del resto in piena sintonia con Biden. Si esalta l’Unione europea che sulla scia di quanto avvenuto per il Covid ha trovato una imprevista coesione sulle sanzioni e sulle armi, ma non su un accettabile compromesso da offrire a Putin; e da prospettare allo stesso Zelensky.

Si proclama che la Russia stia scivolando verso la fossa dell’isolamento internazionale e si invoca al riguardo il voto dell’Assemblea delle Nazioni Unite del 3 marzo dove ben 141 rappresentanti di altrettanti paesi hanno votato a favore della condanna di Putin e solo 4 contro (Corea del Nord, Siria, Eritrea Bielorussia).

Poco ci si sofferma però sui 35 astenuti, ai governi dei Paesi cioè che oltre a non sentir imbarazzo  per un posizionamento che pone di fatto sullo stesso piano aggredito e aggressore come Cina, Vietnam, India, Iran, Iraq, Pakistan, Algeria e diversi paesi africani: una compagnia imbarazzante ma per molti versi una boccata di ossigeno per un Putin “isolato”.

In questo contesto mi sembra interessante rilevare che tra i Paesi che hanno sottoscritto la Risoluzione di condanna figurano i 6 membri del Consiglio di cooperazione del Golfo, ivi compresi gli Emirati che in Consiglio di Sicurezza (comunque condizionato dallo scontato veto russo) si erano astenuti (un colpo al cerchio e uno alla botte con la scusante della differenza dei due testi di Risoluzione). Prendiamone nota perché non era affatto dato per scontato per quelle monarchie che si riconoscono nel Consiglio di cooperazione del Golfo ma in modo alquanto sciolto, tra necessità di convivenza con l’Iran e convenienze di partenariati con la Russia.

Lo hanno fatto solo in parte per dare un segnale di vicinanza con gli Usa cui del resto rimproverano un significativo disimpegno aggravato dai presunti limiti ai quali sarebbero disposti ad accedere pur di tornare all’accordo sul nucleare con l’Iran.

Lo hanno fatto in parte per un’Unione europea alla quale vogliano avvicinarsi in termini di partenariato. Soprattutto lo hanno fatto per loro stessi: nel ricordo del Kuwait aggredito dall’Iraq, nella convinzione delle mire espansionistiche dell’Iran, direttamente e attraverso i suoi proxies.

Lo hanno fatto per dare un monito a quanti dovessero nutrire ancora mire di controllo su terre altrui. Lo ha fatto anche il Qatar che con l’abile ruolo assunto in occasione della disastrosa fuga dall’Afghanistan è riuscito a trovare un’encomiabile capacità di rapportarsi con tutte le parti interessate.

Lo hanno fatto perché il loro obiettivo di fondo è quello di legittimarsi quali condomini a pieno e positivo titolo del palazzo planetario con le loro specificità e la loro capacità di ospitare il mondo (vedasi ad esempio l’Expo di Abu Dhabi e la futura Neom nel contesto della Vision 2030 dell’Arabia saudita).

In tutto ciò giocano un ruolo tutt’altro che trascurabile un altro fattore: l’impennata del prezzo dei prodotti energetici di cui il Golfo è tra i maggiori produttori mondiali. Essa è stata ben accolta naturalmente dai Paesi del Golfo interessati, che tra l’altro ben poco ascolto hanno dato alla richiesta di aumento della produzione per calmierarlo, il prezzo. Hanno preferito privilegiare quest’imprevista bonanza per accelerare i vistosi investimenti intrapresi per incrementare la loro diversificazione economica.

Utilitarismo da criticare? Forse, ma si sa che nelle relazioni internazionali (e non solo) dominano gli interessi delle nazioni, un sostantivo che contiene tutto, anche le amicizie e inimicizie.

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