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Un’Italia nel solco della tradizione popolare, con vista Europa. Scrive Chiapello

Di Giancarlo Chiapello
regolamentazione

Serve una tradizione, quella migliore del cattolicesimo politico italiano, il popolarismo, la famiglia europea a cui arrivare in particolare attraverso i giovani, una voce che aggreghi il pensiero e quindi donne e uomini di buona volontà per la costruzione di una leadership plurale. L’intervento di Giancarlo Chiapello, segreteria nazionale Popolari-Italia Popolare

L’articolo di Federico Riggio su Formiche.net è ben riassunto dal titolo, “Le ambizioni di una Nuova Europa. Veloce, potente e sovrana” e centra una delle questioni fondamentali di questo tempo di crisi in cui pandemia e guerra si sono incrociate, ossia la costruzione della Comune Patria Europa che porta ad unità le differenze, che sono la ricchezza delle identità, ben altra cosa da “rigurgiti più provinciali che nazionalistici”, fuori da schemi istituzionali vecchi che assumono invece l’aspetto dell’originalità in divenire in chiave democratica, secondo il sogno dei Padri fondatori democristiani Adenauer, De Gasperi, Schuman.

Proprio la riflessione di Riggio, ampia e approfondita, fa venire in mente anche la lezione attualissima di Aldo Moro di politica estera, che è parte delle testimonianze dei democratici cristiani che hanno sviluppato il popolarismo (in linea con tutta la politica estera italiana fino alla disastrosa e sedicente seconda repubblica fatta di polarizzazione artefatta e schizofrenia internazionale), nelle dimensioni strategiche della proiezione italiana: “Costantemente dedicata alla ricerca della pace e della cooperazione internazionale. Queste parole possono apparire convenzionali. Ma nel caso dell’Italia esse corrispondono, oltre che a radicati sentimenti del popolo italiano, ai suoi interessi più veri. Essere convinti che il massimo interesse del nostro popolo è che la pace prevalga nel mondo, e particolarmente nel continente europeo e nel Mediterraneo, non vuole d’altronde dire che noi dobbiamo rinunciare alla difesa intelligente ed equilibrata dei nostri interessi. Vuol dire che dobbiamo farlo tenendo presente le condizioni dell’equilibrio mondiale e dell’equilibrio europeo. Se non le valutassimo esattamente, potremmo mancare al nostro primordiale dovere, che è di assicurare, per noi e per le generazioni future, la libertà e l’indipendenza del nostro Paese” (Aldo Moro, ministro degli Esteri, Camera dei Deputati, 23 luglio 1971).

Ecco che si comprende il riconoscimento di una fase di passaggio europea, oggi accelerata, da una china tecnocratica ad una “dorsale tecnico-amministrativa” che contribuisce al processo democratico dell’Unione che vede il Parlamento Europeo, sempre più protagonista e quindi centrale: qui si pone la questione politica, alla conclusione del citato articolo, che interpella in modo pressante il sistema politico italiano in fase di cambiamento perché ormai non più funzionale e irrigidito sul modello del tifo da stadio che lo rende autoreferenziale, “un ordinamento costruito dal Parlamento Europeo così spesso sottovalutato in Italia, e non negli altri paesi, e dove nuovamente si ritrovano le grandi tradizioni europee, quella cristiano-sociale, quella socialista e quella liberale. E si schierano cattolici e socialisti per appartenenze ideali e non nazionali. Dall’altro le ombre di chi è escluso da questo processo e prova ad inventarsi un suo spazio tra un passato fatto su misura e un futuro vago e retorico, sempre fuori dal presente, dal reale”. È vero, per rientrare nella realtà, che vuol dire anche permettere all’Italia di riprendere il suo ruolo primario euromediterraneo, c’è bisogno di ritornare al sistema politico europeo: per dirla in altro modo, per riorganizzare politicamente Roma, senza perdersi nello stagno di una politica in cerca d’autore persa in una geografia senz’anima, occorre ripassare da Bruxelles che richiama agli ideali, conseguentemente alle identità!

Zoomando ulteriormente si può trovare, per la presenza politica dei cattolici, una sintonia tra tutto ciò e le parole usate dal Cardinale Segretario di Stato, Pietro Parolin, nella sua ultima intervista al Corriere della Sera il quale, oltre ad ammettere che negli ultimi venti anni si è consumato un arretramento delle forze di ispirazione cristiana nella vita pubblica a tutti i livelli, (e parla di ispirazione, come qualche mese fa mons. Nunzio Galantino, non fa riferimento alla geografia dei luoghi da occupare che sono secondari), ricorda l’urgenza di sanare la frattura innaturale e ideologica tra cattolici della morale e cattolici del sociale: “È un grave errore pensare che i temi più esplicitamente etici o bioetici siano altra cosa rispetto ai temi sociali e non vi sia continuità. Sono due facce della stessa medaglia. Non si possono inquadrare correttamente i temi sociali se non a partire da una certa antropologia e viceversa. Questa separazione non ha fondamento ed è dannosa alla stessa azione ecclesiale. Quando si perde la visione d’insieme, intervengono le divisioni e si corre il rischio di essere strumentalizzati”.

La chiave di volta rimane ancora quella duplice rappresentata dall’amicizia cristiana e dalla coraggiosa capacità di mettersi all’opposizione dello stato delle cose che permettono di chiudere l’epoca dell’arretramento, della malata contaminazione, del mero entrismo difensivo, dei cattoconsulenti. In quest’ottica non c’è bisogno di inventarsi spazi, che servirebbero solo a giustificare astrattamente l’andare a servizio di qualche parte, che siano conservatori o cattodem innaturalmente radicalprogressisti sganciati dalla tradizione popolare e democratico cristiana che, invece, ha una chiara casa europea da aiutare a riallargarsi e consolidarsi nella sua identità, qual è il popolarismo europeo.

Nella lectio fatta sempre dal Cardinale in un incontro all’Angelicum, a Roma, c’è proprio il lavoro di cesello per la realtà di oggi della parola popolare che non può rimanere relegata nel passato, dove al massimo, può stare una classe dirigente che ha fallito per due decenni il suo compito, per contribuire ad una politica migliore: una “politica migliore” perché “popolare in senso proprio e non populista e che sia riempita di un vero ‘amore politico’, che diventa un amore efficace” e che, come ancora insegna il Santo Padre, “è sempre un amore preferenziale per gli ultimi, che sta dietro ogni azione compiuta in loro favore”.

Come fare? Mettere sic et simpliciter in piedi un partito? No, questo sarebbe un risultato da perseguire a valle, altrimenti non si affronterebbe l’arretramento previo che è nella società e si farebbe la solita operazione tattica politicista. Allora serve una tradizione, quella migliore del cattolicesimo politico italiano, il popolarismo, la famiglia europea a cui arrivare in particolare attraverso i giovani, una voce che aggreghi il pensiero e quindi donne e uomini di buona volontà, una cabina di regia politico-culturale un po’ sul modello tedesco che vada ad intersecarsi con i territori dove scorre il fiume carsico di una Italia popolare, costruire confronto con le realtà cattoliche e formare un frontline di una innovativa, autorevole, non logora, leadership plurale. Tutto ciò assumerebbe la caratteristica fondamentale, quella della durata: a valle, così, il lavoro sarebbe valutabile, possibile e veloce.

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