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Il Consiglio europeo di Versailles e le occasioni mancate. Scrive Pittella

Di Gianni Pittella

I tempi difficili davanti a noi richiedono una Unione europea più forte e un’Italia protagonista del proprio destino. Ora aggiornamento dei Pnrr ed emissione di eurobond per politiche energetiche e della difesa. Il punto di Gianni Pittella, senatore del Partito democratico, già presidente del gruppo S&D al Parlamento europeo

Due anni ormai di brusco risveglio, per l’Italia, per l’Europa, per l’intero mondo.

L’ingenuamente annunciata fine della storia sembra restituirci con gli interessi l’instabilità geopolitica, l’epidemia, la guerra alle nostre porte e la parallela consapevolezza che il potere statuale e, nel caso europeo la dimensione sovrastatuale debbano essere recuperati nella loro pienezza. A difesa delle nostre comunità di cittadini e financo a difesa delle generazioni a venire in qualunque confine esse si trovino perché, come diceva Kennedy, rivolgendosi parimenti ai russi e agli americani, nel suo famoso discorso all’American University per la pace e contro la proliferazione nucleare: “Il legame di base che ci unisce è in fondo il fatto che tutti viviamo su questo piccolo pianeta, respiriamo tutti la stessa aria, abbiamo tutti a cuore il futuro dei nostri figli e siamo tutti mortali’.

Gli accadimenti pandemici hanno mostrato quanto ingenue siano le scelte isolazionistiche e nazionalistiche degli Stati e quanto l’Europa sia una comunità di destino, una scelta di responsabilità, uno strumento prezioso di unità nella solidarietà.

Ora siamo chiamati a una sfida ancor più grande.

L’Europa diventa il baluardo della democrazia e delle libertà contro l’aggressione neo imperialista della Russia di Putin, diventa il pilastro di sostegno politico, economico, finanziario, materiale e umanitario al legittimo governo e al popolo dell’Ucraina, diventa, deve diventare lo strumento per il rafforzamento dell’autonomia energetica, di approvviggionamento alimentare e della capacità di difesa per le nostre comunità.

In questi termini, la grande sfida difronte a noi è il completamento dell’integrazione europea a tutti i livelli, perché se l’Europa unita è un player globale, da soli i suoi stati membri sono di irrilevanza tragica dal punto di vista militare, politico ed economico.

Il Consiglio europeo di Versailles del 10 e dell’11 marzo è stato un passo in avanti di consapevolezza e anche di azione concreta e indirizzo strategico. E il presidente Draghi vi ha offerto un contributo serio e lungimirante.

Tre sono i punti che mi sento di approfondire concisamente: cosa fare per l’Ucraina, quali rimedi approntare per limitare i danni da guerra per l’economia europea e infine che passi possiamo muovere come Paese.

Non possiamo dividerci come Paese e non ci stiamo dividendo sulla condanna dell’aggressione militare russa e sull’adesione e l’applicazione di sanzioni economiche severe al paese invasore, né possiamo dividerci sull’aiuto militare e sulla solidarietà umanitaria all’Ucraina, e su questo piano, nell’invio di beni materiali e derrate alimentari agli ucraini rimasti nel paese e nell’accoglienza dei profughi, sapendo che quando chiedevamo all’Europa di essere solidali con noi dinanzi agli arrivi dall’Africa, oggi dobbiamo offrire solidarietà a quei Paesi, come la Polonia, che sono più esposti a questo biblico esodo di disperati che hanno perso tutto.

Per questo, vanno accolti positivamente i due strumenti condivisi a Versailles, la European Peace Facility, che può mobilitare fino a 5mld di euro di aiuti militari, di cui 500milioni già utilizzati per inviare armi sul fronte ucraino e la Direttiva di Protezione Temporanea, il cui utilizzo è stato approvato per la prima volta e che dà ai rifugiati di guerra ampio e semplificato accesso al sistema educativo, sanitario e sociale dell’Unione.

Stiamo mostrando al mondo cosa significa credere e praticare i nostri valori e cosa significa la solidarietà concreta a un popolo e a un governo aggrediti.

Sul fronte internazionale, è importante sostenere le ragioni del dialogo, della trattativa di pace, della via di una pace duratura, sapendo che il nostro quadrante di riferimento è quello atlantico, quello della Nato, e che alla risposta in termini di sanzioni economiche per quanto dure non può, non deve seguire un impegno militare diretto, pena l’escalation mondiale e potenzialmente nucleare del conflitto.

Nel frattempo, il processo di adesione dell’Ucraina va aperto come richiestoci dal suo presidente Zelensky, come un segnale di copertura politica, di connessione valoriale tra l’Unione e l’Ucraina ma consentitemi di ricordare che è in corso un negoziato di decenni con i Paesi dei Balcani che dovremmo finalmente concludere positivamente, prima che le tensioni visibili e non visibili di quell’area, soprattutto in Bosnia, si trasformino in conflitti non meno drammatici di quello che stiamo vivendo.

Sono dinanzi a noi mesi, forse anni in cui le conseguenze del conflitto sono morte e devastazione in Ucraina ma anche il rischio di dura crisi economica in Europa e di insufficiente sicurezza di un continente privo di una difesa comune a supporto del Patto Atlantico.

Il prezzo del gas è decuplicato, il prezzo del petrolio ha superato i 130 dollari, la benzina costa oltre 2 euro al litro, tutte le materie prime – a partire da quelle agroalimentari: grano tenero, mais e girasole – subiscono rincari. Più di altri paesi, l’Italia paga la dipendenza energetica dalla Russia e la dipendenza alimentare dall’Ucraina.

Oggi ci ricordiamo che cosa ha significato per l’Italia la politica dei no. No alle centrali nucleari, no ai rigassificatori, no a un efficace sfruttamento petrolifero, persino in parte un certo sospetto verso eolico e solare e arretratezza sull’idrogeno. Il risultato è l’assenza di ogni autonomia energetica del Paese e la dipendenza dalle risorse russe.

I primi passi del governo sono positivi.

Il tour all’estero del ministro Di Maio e dell’amministratore delegato di Eni, Descalzi in Algeria e Qatar, nella Repubblica del Congo e in Angola, è cruciale per il nostro approvvigionamento energetico e ha pure ragione il ministro Cingolani quando avverte che la cosa migliore da fare per frenare il costo dell’energia resta la fissazione di un tetto europeo, frutto di una trattativa comune dei paesi membri sul prezzo. Calmierare il costo di gas e petrolio sarebbe più facile se Bruxelles si presentasse come acquirente unico. E condivido l’idea di una riduzione delle accise sul costo dei carburanti (tra le quali ci sono quelle introdotte nel 1935 per la guerra d’Etiopia, nel 1963 per il disastro del Vajont, nel 1980 per il terremoto in Irpinia) che darebbe qualche sollievo al consumatore finale.  Ed è pure importante Bruxelles apra alla tassazione degli extraprofitti e al tetto di prezzo del metano almeno 200 miliardi di euro di profitti extra nell’Unione europea che il comparto energetico, complice l’aumento dei prezzi, produrrà nel 2022.

Ma tutto questo non basta, lasciatemelo dire.

O l’Unione europea comprende che siamo in una fase emergenziale e dà una risposta straordinaria, come accaduto per la pandemia, o altrimenti ne usciamo tutti, Italia in primis, con le ossa rotte.

L’Unione Europea non ha emesso nel marzo-aprile 2020, i tanto discussi “Coronabond” di cui molti Paesi avevano fatto richiesta, ma il Recovery Fund è stato finanziato di fatto con le prime obbligazioni comuni europee e col debito mutualizzato. Si tratta di rafforzare la strada tracciata espandendo all’acquisto energetico e militare un Recovery Plan di guerra capace di rispondere alla fase.

Ribadisco, si tratta di emettere eurobond che consentano di finanziarsi a costi ridotti per spese legate alle politiche energetiche e alla difesa.

Il solo fatto se ne sia parlato, qualche giorno fa, la sola ipotesi ha prodotto effetti concreti portando a un ribasso dei prezzi del gas e al rimbalzo delle borse.

Il modello potrebbe essere quello del programma Sure con cui è stata coperta la spesa per gli ammortizzatori sociali nei Paesi colpiti dalla pandemia. In sostanza, la Commissione andrebbe sul mercato per raccogliere risorse (a tassi molto bassi grazie al suo rating elevatissimo) a fronte di garanzie offerte dagli Stati membri in proporzione al loro Pil.

Stabilizzare un tesoro comune dell’Ue è sempre più urgente perché le politiche energetiche e le catene di valore dovranno essere compatibili, se non addirittura apertamente subordinate, alle esigenze di sicurezza nazionale. Una chiave di lettura nuova dopo decenni di globalizzazione senza stati.

E ovviamente accanto agli eurobond è essenziale un immediato aggiornamento dei Pnrr.

Germania e Olanda hanno ancora forti resistenze contro l’ipotesi di un riscadenzamento e una dilatazione dell’arco temporale di attuazione dei Piani nazionali del Next Generation EU ma dobbiamo essere concreti. Oltre ai costi delle materie prime alle stelle per gli investimenti in infrastrutture che già inducono a ripensare tempi e modi di attuazione, se oggi noi abbiamo bisogno di cambiare le nostre politiche energetiche, occorre dotarsi di infrastrutture addizionali che vanno finanziate.

Rimodulare i Pnrr e superare l’illusione si possa davvero reintrodurre l’anno prossimo il Patto di stabilità, una camicia di forza rispetto agli investimenti necessari. Un Patto da sottoporre a profonda revisione che scorpori gli investimenti in assi strategici, revisione che in ogni caso richiede tempo e confronto.

In conclusione, i tempi difficili che ci sono innanzi richiedono una Unione europea più forte e un’Italia protagonista del proprio destino.

Questo governo, questo Parlamento, nell’anno che gli resta può impostare un lavoro a cui i posteri guarderanno con gratitudine e rispetto.

 

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