Pino Pisicchio legge per Formiche.net “Libia 110 anni dopo. Appunti per ricordare (e non sbagliare)”, edizioni di The Skill Press, a firma di Mario Nanni e Andrea Camaiora. Un volume quasi “pedagogico” e di straordinaria attualità. Perché non solo celebra il rito della memoria, ma si fa manifesto delle più inquietanti tentazioni contemporanee di riproposizione degli antichi imperi
In una stagione come quella del tempo presente, che trova nella fluidità (intesa come sinonimo di ambiguità) del suo proporsi tra conati di futuro e suggestioni del passato, il libro di Mario Nanni e Andrea Camaiora “Libia 110 anni dopo. Appunti per ricordare (e non sbagliare)”, edizioni di The Skill Press, è un lavoro quasi “pedagogico” e di straordinaria attualità. Perché non solo celebra il rito della memoria che riguarda l’evento, ma si fa manifesto delle più inquietanti tentazioni contemporanee di riproposizione degli antichi imperi che in quel tempo andavano a sbriciolarsi, come quello Ottomano, a cui muovemmo guerra per sbarcare in Libia e quello zarista, che sarebbe caduto qualche anno dopo con l’avvento della rivoluzione comunista.
Tentazioni, ahinoi, incarnate da due campioni di democratura contemporanea, come Erdogan e Putin, quest’ultimo in piena attività di servizio.
Il libro, però, è interessante anche per altri motivi: la scrittura accetta di sconfinare fino a terre quasi incognite, grattando un poco il rimosso della nostra “avventura” coloniale, e misurandosi – gli autori sono due giornalisti capaci di introspezione storica – anche con il “brutto” che gli italiani brava gente hanno combinato in quel lembo d’Africa.
Perché la tarda colonizzazione della Libia, perseguita per ornare di sé il giovane regno d’Italia a cinquant’anni dall’Unità, ma un po’ fuori tempo massimo rispetto alle epopee coloniali degli imperialisti europei, fu violenta e dolorosa. Nel primo intervento offensivo delle truppe italiane a Tobruk e Tripoli il Generale Caneva arrivò ad impiegare fino a 100.000 uomini per vincere la resistenza delle formazioni irregolari libiche, infinitamente più piccole e fatte di nomadi, fieri e orgogliosi ma certamente non equipaggiati come i soldati italiani. Si trattò, dunque, di una conquista incompiuta che però – e gli autori lo rilevano – poté giovarsi di una narrazione, fatta dei media italiani dell’epoca, che nulla ha da invidiare alle più raffinate strategie moderne della comunicazione, cominciando ad edificare quell’immaginario collettivo che ancora oggi nutre il nostro approccio con la Libia.
Si pensi che nelle scuole elementari erano allestite attività ludiche che raccontavano con alone favolistico il mito del soldato italiano che andava a “salvare” dall’ignoranza e dalla fame il bambino nero, mentre il suo papà veniva disegnato come il nero cattivo. Insomma: se la paura dell’uomo nero non nasce lì, comunque in quell’Italietta trova una forte legittimazione che resterà impressa nella memoria sociale degli italiani. Quasi un archetipo junghiano.
Nel ‘31, vent’anni dopo, Mussolini e Graziani fecero ancora di più con la seconda “missione” in Libia per normalizzare la situazione. Queste pagine oscure, che trovarono in tempi più recenti finestre di luce anche per il lavoro di scavo di un altro giornalista-storico come Del Boca (oltre che per le ricerche del mondo accademico), vengono opportunamente richiamate nella seconda parte del libro che guarda all’aspetto diacronico, offrendo anche chiavi di lettura per capire la parte prima, dove l’analisi del cronista politico registra ascesa, gesta, splendori, miserie e, soprattutto interazioni con i governi italiani, della guida della Jiamahiriya Gheddafi.
Così è spiegata l’ambiguità gheddafiana, rais della Libia per 42 anni, nei confronti del nostro Paese, la sua generosa collaborazione con l’Eni e, nel contempo, la sua incessante richiesta di risarcimenti all’Italia repubblicana per l’ignominia di una occupazione violenta cui si era macchiata l’Italia giolittiana e poi mussoliniana. Così si comprende l’esibizione dell’effige di Omar Mukhtar, martire della resistenza libica, nella sua visita a Roma, regnante l’amico Berlusconi.
Il merito più grande di questo libro, oltre la puntuale ricostruzione storica, è quello di raccontare con chiarezza le liaisons dangereuses tra la guida della Libia moderna e l’Italia, relazioni iscritte nel registro delle necessità non solo geografiche ed economiche, ma anche storiche dell’Italia, Paese mediterraneo che troppo spesso dimentica le sue ragioni. Chi non si dimostrò certamente smemorato fu Enrico Mattei. E non dimenticarono l’identità mediterranea Aldo Moro, Giulio Andreotti, Bettino Craxi, seppure con le loro diverse sensibilità politiche, come ricorda efficacemente Mario Nanni nella prima parte del libro.
Anche Berlusconi dialogò con Gheddafi ed anzi ne fu amico fino a sfidare l’ostilità dell’opinione pubblica italiana quando in quella visita italiana del 2009 a Roma, da presidente del consiglio ebbe ad esprimere gesti che furono considerati addirittura sottomissivi. Berlusconi condivise e concesse molto al leader libico. Salvo poi, nel 2011, a dover cedere il passo alla determinazione franco-britannica volta alla distruzione anche fisica del passaggio gheddafiano nella storia libica. Il che coincise con l’avvento della tempesta perfetta nel Mediterraneo. Ma questa è un’altra storia che Nanni e Camaiora lasciano solo intravedere.