L’antipolitica cresce in maniera proporzionale all’insoddisfazione dei cittadini, i quali assistono a situazioni paradossali, soprattutto in un momento storico di forte instabilità economica e politica.
Nell’antipolitica, fra i tanti argomenti portati avanti, vi rientra anche il cosiddetto “finanziamento pubblico ai partiti” o “rimborsi elettorali”, un sistema che eroga risorse economiche ai partiti con criteri legati direttamente al numero dei voti ricevuti dalle singole componenti partitiche presenti in Parlamento.
Il finanziamento pubblico, in realtà, va a garantire un certo grado di democrazia all’interno del nostro ordinamento, senza il quale si rischierebbe di far diventare l’attività politica legata solamente alle risorse finanziarie di chi ne ha la disponibilità.
Il concetto di democrazia ha un costo, in quanto permettere a tutti di partecipare alla vita pubblica è oneroso, significa, infatti, impegnare risorse, rendere effettivo e sostanziale il concetto di “partecipazione” e coinvolgere anche chi non ha le risorse.
I detrattori del finanziamento pubblico cavalcano l’onda emotiva dei tristi fatti di sottrazione di somme dai bilanci dei partiti. Si tratta assolutamente di fatti deprecabili, ma che non vanno confusi con l’obiettivo programmatico che tale strumento si propone: la partecipazione generalizzata alla vita pubblica dell’intero Paese. I fatti emersi in queste settimane rappresentano un aspetto patologico del sistema, non il sistema stesso. È chiaro che devono essere sempre ricercati strumenti di controllo efficaci che non permettano il ripetersi di fatti così gravi.
Ma nei Paesi in cui non c’è il finanziamento pubblico cosa accade? Il caso emblematico sono gli Stati Uniti, democrazia matura e consolidata, in cui le campagne elettorali e i partiti si finanziano attraverso contributi su base volontaria, soprattutto delle grandi aziende. Ma siamo sicuri che questo è un sistema che permette di risparmiare e che, soprattutto, moralizzi la vita politica? In realtà non è così, perché il rischio concreto che si presenta è quello delle lobby in grado di influenzare pesantemente, grazie al loro intervento economico determinante, le scelte politiche.
Anche in questo senso va visto il finanziamento pubblico, come garanzia di indipendenza e terzietà rispetto a gruppi finanziari in grado di “irrorare” parti del sistema, ma avendo un certo peso nelle scelte future che andranno prese.
Il motivo per cui venne inserito il finanziamento pubblico in Italia nel 1974 con la legge n. 195, proposta dal deputato della Democrazia Cristiana Flaminio Piccoli aderente alla corrente dorotea, fu proprio quello di sottrarre i partiti, e la politica in genere, dalle pressioni esterne che certi gruppi di potere potrebbero esercitare. Il clima di introduzione della normativa fu quella degli scandali legati al caso Trabucchi per la concessione di licenze a società private di tabacco messicano, il quale portò per la prima volta il Parlamento italiano a riunirsi in seduta comune per deliberare il rinvio a giudizio, e lo scandalo petroli del 1973.
Il finanziamento pubblico fu sottoposto a referendum abrogativo nel 1993, sull’onda emotiva degli scandali emersi con tangentopoli e che portò alla demolizione di un’intera classe dirigente e alla nascita della Seconda repubblica.
Il tassello finale fu l’aggiornamento, con la legge n. 515/1993, delle disposizioni in merito ai rimborsi elettorali il quale all’art. 9 prevede il “Contributo per le spese elettorali” ai commi secondo e terzo, e 9 bis.
A questo punto una soluzione potrebbe essere quella di controlli più stringenti ai bilanci e la giustificazione documentata delle spese sostenute. Il nostro Paese ha un’esperienza precedente all’attuale sistema di finanziamento, certamente non ha brillato per moralità, anzi certi ambienti politici hanno cercato alternative per finanziare le proprie attività. A questo punto non ci resta che fare tesoro dell’esperienza e non decidere con l’emotività che il momento storico porta con se.