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Spese militari. Attenzione alla propaganda. Il monito di Pagani

Di Alberto Pagani

Leggere i mal di pancia sull’impegno del 2% per la difesa con le lenti del capogruppo Pd in commissione Difesa della Camera, Alberto Pagani. Il nobile sentimento pacifista, presente nell’opinione pubblica italiana, può essere facilmente strumentalizzato per il posizionamento politico e la ricerca del consenso di un partito o di un leader. Anche perché non si tratta di spese, ma di investimenti soprattutto in tecnologie dirompenti, di cui poi beneficerà l’intero Paese

Nei giorni scorsi il mondo intero, ed i nostri alleati con più attenzione, hanno assistito alla sceneggiata della politica italiana sull’aumento delle spese militari. Trattandosi fondamentalmente di un’imbarazzante commedia all’italiana, credo che questa vicenda surreale meriti qualche approfondimento e chiarimento. Riepiloghiamo i fatti.

Le spese per la Difesa in Europa

Nel 2014 il Presidente americano Obama chiese agli Stati aderenti alla Nato di riequilibrare il loro impegno economico per garantire, con il contributo equo delle singole forze armate nazionali, gli impegni della Difesa collettiva. Tutti i 30 alleati si accordarono e si impegnarono a raggiungere una soglia minima di investimento per la Difesa pari almeno al 2% del Pil. Il Presidente del Consiglio italiano dell’epoca, impegnandosi in questo senso, assumeva giustamente un impegno a nome del Paese, non a titolo personale. Nelle relazioni internazionali la capacità degli Stati di mantenere ed onorare gli impegni assunti è la misura della loro serietà ed affidabilità. In ambito europeo i Paesi più importanti che sono interessati da questo impegno sono la Germania e l’Italia, che per ragioni storiche hanno sempre investito meno degli altri nella Difesa, essendo quelli che hanno perso la Seconda guerra mondiale. Mentre gli americani investono il 4,3%, la Gran Bretagna il 2,5%, la Francia il 2,3%, e la media europea è del 2%, la Germania e l’Italia spendono oggi solamente l’1,5%.

Gli impegni Nato

La richiesta che anche noi si faccia la nostra parte è giusta e legittima perché la Nato è un’alleanza difensiva e la difesa collettiva deve essere garantita dall’impegno equo ed equilibrato di tutti. Se si pretende di essere ascoltati e avere voce in capitolo nelle decisioni comuni di un’alleanza, si deve sapere che il costo dell’alleanza non può pesare solo sulle spalle dei più forti. Beneficiare dell’ombrello protettivo senza contribuirvi in ragione delle nostre possibilità è un comportamento parassitario e poco dignitoso, che sarebbe meglio correggere autonomamente, senza che ci venisse nemmeno richiesto. Rifiutarsi di farlo è come non voler pagare le spese condominiali e costringere gli altri condomini a farsene carico. Nobilitare questo comportamento ammantandolo di pacifismo è poi abbastanza ipocrita e poco dignitoso.

Consapevoli di queste banali motivazioni i diversi governi che si sono succeduti dal 2014 ad oggi, a parte pochissime eccezioni, hanno regolarmente onorato gli impegni ed incrementato gradualmente l’investimento nella Difesa, ad ogni legge di Bilancio, raggiungendo il livello attuale, ancora insufficiente, ma gradualmente migliorato. Anche il governo Conte ha aumentato le spese militari, e si spera che questo non sia accaduto all’insaputa del Presidente del Consiglio di allora.

Oggi il conflitto militare in Ucraina ha reso evidente anche a chi riteneva scomparsa ogni minaccia militare esterna, che la deterrenza è ancora necessaria per garantire la sicurezza e la pace, anche in Europa. La Germania ha quindi deciso di rafforzare il suo impegno nella direzione già assunta e di investirci cento miliardi di euro, superando la soglia prevista del 2%. Noi possiamo permetterci solamente di continuare ad incrementare con gradualità, perché a differenza di quello tedesco il nostro bilancio dello Stato è gravato dal peso degli oneri finanziari per l’enorme debito pubblico contratto nel passato.

Il dibattito in Italia

Questo è il contesto generale in cui si inserisce la pantomima italiana, alla quale i nostri alleati internazionali hanno dovuto assistere. Cosa è successo dunque in questi ultimi giorni? Nulla di concreto, in realtà. Il presidente della Commissione Difesa della Camera dei deputati e i capigruppo di tutti i partiti di maggioranza (io compreso) hanno presentato un Ordine del giorno al DL Ucraina, che impegna il Governo a mantenere fede agli impegni assunti in ambito Nato relativi all’obiettivo del 2%. L’Odg è stato approvato dall’Aula, senza alcuna rimostranza, né critica. Ovviamente si tratta solamente di un impegno politico, perché un Odg non è un emendamento al decreto, e non aumenta di un centesimo alcuna spesa militare. L’incremento graduale avverrà, come tutti gli anni, con l’approvazione della legge di Bilancio, a dicembre prossimo.

Tuttavia, il candidato alla guida del M5S, in coincidenza con le votazioni interne al suo partito, ha promosso una polemica politica su questo tema, annunciando la sua contrarietà all’aumento delle spese militari. Presumo che questa polemica abbia spiazzato ed imbarazzato prima di tutto i colleghi deputati del M5S che avevano concordato, proposto ed approvato l’Odg a margine del Dl Ucraina, non essendoci alcuna corsa al riarmo, e nemmeno alcuna iniziativa legislativa reale che modifichi gli attuali impegni di spesa. La stampa però ha superficialmente rimbalzato e riproposto una narrazione falsa, secondo la quale si sarebbe deciso in questi giorni un incremento improvviso delle spese militari, in relazione alla crisi Ucraina.

L’opinione pubblica, tratta in inganno da queste notizie false, si è polarizzata tra chi è favorevole e chi contrario ad una iniziativa politica che non è mai stata realmente in discussione. Ne è uscito un dibattito surreale, che penso abbia dato del Paese un’immagine poco edificante presso i nostri alleati Nato, che ad oggi stanno sostenendo anche la nostra parte dei costi di un sistema di difesa collettivo. Personalmente sarei piuttosto irritato se il mio vicino di casa non pagasse la sua parte di spese condominiali e pretendesse pure di farmi la morale sulla congruità e correttezza di quanto pago io al posto suo. Prima di entrare nel merito della spesa bisogna aver chiaro questa premessa sul contesto, perché quanto è apparso sui giornali dei giorni scorsi ci ha fatto apparire agli occhi degli alleati come quel condomino moroso ed arrogante, e questo è piuttosto spiacevole e fa male al Paese. Entriamo ora nel merito.

Le spese militari sono un investimento

Le spese militari sono composte da una parte di bilancio corrente e una parte di investimenti. Più della metà di questa spesa finisce negli stipendi di cui vivono le famiglie di militari, che sono lavoratori pubblici come gli insegnanti, i sanitari o gli impiegati della PA, ed hanno diritto di essere remunerati dignitosamente. La legge 244/12 che prevede che le tre forze armate italiane, esercito, marina ed aeronautica, non superino il totale di 150mila unità di personale. Gonfiamo i numeri perché nella spesa complessiva computiamo anche il costo di 110mila carabinieri, che in gran parte hanno compiti di polizia territoriale in Italia, e i 60mila finanzieri, che pure sono militari, ma hanno un compito di polizia tributaria.

In ambito Nato gli Usa, tra forze armate e guardia nazionale contano sui tre milioni di militari, i Turchi su più di un milione, britannici, francesi e tedeschi superano tutti il mezzo milione, perché hanno forze di riserva molto numerose, e persino la Grecia, tra effettivi e riserva, ha più di 400mila soldati. Se ci liberassimo dal provincialismo che caratterizza il nostro dibattito politico e ci guardassimo intorno seriamente ci renderemmo subito conto che il contributo che fornisce il nostro Paese alla Difesa collettiva della Nato non è all’altezza del rango che gli italiani pensano di avere.

Non si tratta dunque di alimentare una folle corsa al riarmo, ma di fare solamente il nostro dovere e la nostra parte all’interno dell’Alleanza. In aggiunta a quella per il personale c’è la spesa per la formazione e l’addestramento, la gestione e manutenzione delle infrastrutture, e per il funzionamento logistico ed organizzativo della Difesa. Quando c’è stato bisogno dei militari per affrontare l’emergenza Covid e riorganizzare la struttura commissariale per le vaccinazioni il contributo della Difesa mi pare che sia tornato utile, e che gli italiani lo abbiano visto ed apprezzato. Allora è bene che sappiano che senza questi investimenti non sarebbe stato possibile avvalersi delle capacità logistiche dell’esercito, e credo che avremmo patito la differenza, e ne avremmo pagato la mancanza.

Le ricadute tecnologiche

Infine, c’è la spesa per gli investimenti in tecnologia. Le tecnologie più sofisticate e complesse, come quelle del settore aerospaziale, sono spesso ad uso civile e militare. La tecnologia satellitare, ad esempio, o quella applicata ai droni di sorveglianza, hanno applicazioni di intelligence militare, ma servono anche per tanti usi civili, dall’osservazione della terra, alla meteorologia, alla navigazione, alle telecomunicazioni. I sistemi d’arma sono prima di tutto dei concentrati di tecnologia avanzata, frutto della ricerca tecnologica applicata al settore degli armamenti, che si trasferisce poi sempre all’industria civile. Come le innovazioni derivate dal settore delle corse della Formula uno passano all’industria automobilistica e migliorano le auto che compriamo tutti noi, così succede per la ricerca militare. Senza il finanziamento pubblico ad essa non ci sarebbero Internet, i satelliti spaziali, il Gps, il touch screen, il goretex, e nemmeno i giochi della Play station. L’economia degli Stati Uniti vive di rendita da anni grazie al trasferimento tecnologico ad uso civile delle innovazioni prodotte dalla ricerca militare. La new economy e la Silicon valley sono nate così.

Questo dimostra che chiamiamo impropriamente spesa militare ciò che in realtà è un investimento nel sapere scientifico e tecnologico applicato, perché per 1 euro investito c’è un ritorno di 6, 7, 8 euro a vantaggio dell’economia nazionale. Chi ha studiato un po’ di economia politica e conosce la teoria del moltiplicatore keynesiano, sa che si tratta di una spesa che genera più ricchezza di quanta ne costa. Se si avesse la pazienza e l’umiltà di guardare i dati, prima di giungere alle conclusioni, si scoprirebbe che i grandi campioni nazionali del settore industriale della Difesa, a cominciare da Leonardo e Fincantieri, vendono i loro prodotti sia all’Italia che all’estero, producono occupazione e profitto e finanziano lo Stato italiano attraverso i tributi e gli utili d’impresa, essendo aziende pubbliche.

Pacifismo strumentalizzato

Dire che si tratta di risorse sottratte a più importanti priorità non è un’opinione politica, ma è una stupidaggine, frutto dell’ignoranza della materia economica e di quella militare, perché il ritorno che genera l’investimento nelle tecnologie per la Difesa arricchisce il Paese e contribuisce a finanziare la scuola, la sanità, ed i servizi pubblici in generale. La triste verità è che più i partiti diventano ideologicamente e culturalmente deboli e informi, e più cercano di posizionarsi interpretando il sentimento dell’opinione pubblica, registrato quotidianamente dal barometro dei sondaggisti, e rappresentarlo con messaggi semplici e parole d’ordine demagogiche. “No alla corsa agli armamenti” è uno di questi slogan, particolarmente efficace a catturare l’attenzione e il consenso di una parte significativa dell’opinione pubblica, e quindi dell’elettorato. Certamente è bene che la maggior parte dell’opinione pubblica sia animata da sentimenti pacifisti, che ripudi la guerra come strumento di offesa della libertà di altri popoli, come è scritto nella nostra Costituzione.

Chi ha buona memoria delle pagine nere del nostro passato comprende bene l’importanza dell’articolo 11 e le ragioni per cui i costituenti definirono questo carattere fondativo della Repubblica italiana. Purtroppo, però il nobile sentimento pacifista può essere facilmente strumentalizzato per il posizionamento politico e la ricerca del consenso di un partito o di un leader politico. Questa tentazione può diventare irresistibile per i dirigenti di forza politiche che attraversano momenti di difficoltà interna, o di crisi. “Il vero problema che deve risolvere la politica nella nostra democrazia moderna è come convincere i nostri governanti a governare sul serio. Il dogma della voce del popolo che sarebbe la voce di Dio tende a trasformare gli eletti nei servi sciocchi e docili dell’elettorato. È senza dubbio una delle cause della sterilità politica contro cui si scagliano alcuni critici”. Lo scriveva nel suo saggio sulla propaganda, più di un secolo fa, da Edward L. Bernays, nipote di Sigmund Freud e precursore delle moderne tecniche di manipolazione dell’opinione pubblica. Sembrano parole scritte oggi.

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