C’è una strategia di breve periodo, che punta sulle forniture di altri paesi, e una di medio periodo, fatta di biometano (prodotto con rifiuti, scarti di agricoltura e letame), idrogeno ed economia circolare, per garantirci le materie prime fondamentali per le rinnovabili. Conversazione con l’amministratore delegato del fondo Xenon Fidec, fondatore di Equiteco ed ex presidente di Snam
Sono giorni di guerra, sanzioni minacciate e sanzioni reali, incertezza sui condizionatori d’estate, sul riscaldamento d’inverno e sulla tenuta del sistema industriale in caso di embargo totale sugli idrocarburi russi. Ma sono anche giorni in cui si ripensa da capo la politica energetica europea, su basi più sostenibili non solo sul piano ambientale o sociale, ma su quello geopolitico. Abbiamo capito che non possiamo più affidare la nostra sicurezza energetica a pochi e instabili fornitori, ma anche che abbiamo risorse che non sappiamo sfruttare. E non parliamo (solo) di giacimenti: usare il biometano garantirebbe più forniture, farebbe felici contadini e allevatori e creerebbe ricchezza nel nostro Paese. Di questo e di molto altro abbiamo parlato con Luca Dal Fabbro, amministratore delegato del fondo Xenon Fidec, fondatore di Equiteco ed ex presidente di Snam.
La questione della dipendenza energetica italiana dal gas è un tema dibattuto da mesi ormai. Se però prima dello scoppio del conflitto in Ucraina il tema era all’ordine del giorno per una questione di costi sopportati da famiglie e imprese, oggi il tema è la sicurezza energetica. Qual è la situazione?
In Italia vengono consumati annualmente 70 miliardi di metri cubi (m3) di gas, pari a circa il 42% del mix energetico nazionale. Di questi, più del 40% è di provenienza russa. Nei fatti, questa situazione è strutturale a tutta l’Unione Europea. In Europa, il gas rappresenta circa un quarto del mix energetico. L’UE importa il 90% del gas che consuma, e oltre il 40% del suo consumo totale di gas proviene dalla Russia. L’Europa compra inoltre il 25% del suo petrolio e il 50% del carbone dalla Russia. Per questo motivo, subito dopo l’invasione russa in Ucraina, l’UE ha presentato il piano REPowerEU, con l’obiettivo di ridurre la propria dipendenza energetica da Mosca, sostituendo entro il 2022 100 miliardi di m3 di importazioni di gas dalla Russia, ovvero due terzi di quello che importiamo da loro.
Come pensa di farlo?
Seguendo strategie diverse. Nel breve periodo, prioritizzando l’efficienza energetica e cercando fonti di gas alternative alla Russia. Sul primo punto, la Commissione nota come abbassare il riscaldamento degli edifici di un grado ridurrebbe la domanda di gas di circa 10 miliardi di m3 all’anno. Sul secondo, l’UE ha concordato con gli Stati Uniti l’invio di 15 miliardi di m3 di gas naturale liquefatto (GNL) aggiuntivi nel 2022, ma le parti si sono impegnate a rivedere questa cifra al rialzo fino a 50 miliardi nei prossimi anni. Per fare un confronto, si tratta di più del doppio dei 22 miliardi di m3 che gli USA hanno venduto in Europa nel 2021.
Sul fronte italiano, il governo ha negli ultimi giorni stretto un accordo con l’Azerbaigian, innalzando a 9,5 miliardi di m3 il flusso di metano che transita dal gasdotto Tap per Turchia, Grecia ed Albania, rispetto agli attuali 7 miliardi. Tuttavia, questo non può bastare a sostituire i 29 miliardi di provenienza russa. La strategia del governo prevede perciò circa 10 miliardi di m3 aggiuntivi da Algeria e, in misura minore, Libia. Attraverso l’Eni inoltre si conta di ricevere da Egitto e Qatar circa 3 miliardi di m3 nel 2022 e 5 nel 2023, mentre un progetto in Congo dovrebbe fornire circa 5 miliardi a partire dal 2023-2024. Infine, 2-3 miliardi di m3 arriverebbero dall’autoproduzione nazionale, che al momento copre il 5% del nostro fabbisogno.
E nel medio periodo?
Se nel breve periodo la priorità è la sicurezza energetica, nel medio periodo la priorità dev’essere la transizione energetica e la riduzione degli impatti ambientali, insieme alla garanzia di un costo dell’energia accessibile durante la transizione. Anche qui il piano REPowerEU ha tracciato la strada: biometano, idrogeno e rinnovabili.
Partiamo dal biometano.
Il biometano ha il vantaggio di essere un combustibile rinnovabile, che si ottiene soprattutto dalla frazione organica dei rifiuti urbani e dagli scarti dell’agricoltura. Inoltre, già oggi sostituisce il metano in tutti i suoi usi, dal settore dei trasporti alla produzione elettrica. Il nuovo piano Europeo ha raddoppiato il già ambizioso obiettivo per il biometano stabilito nel pacchetto Fit for 55%, portando la produzione a 35 miliardi di m3 all’anno entro il 2030. L’Italia ha una posizione di leadership nel settore e ci si aspetta una crescita sostanziale nei prossimi anni.
Qual è invece il ruolo dell’idrogeno nella transizione?
Già oggi l’idrogeno trova molte applicazione industriali. Se però al momento si tratta di idrogeno cosiddetto “grigio”, ottenuto da fonti fossili con l’emissione di grandi quantità di CO2 nel processo, l’UE sta investendo molto nell’idrogeno “verde”, ottenuto tramite elettrolizzatori che separano l’acqua in idrogeno e ossigeno sfruttando energia da fonti rinnovabili. Secondo il piano europeo, aggiungendo 15 milioni di tonnellate (mt) di idrogeno rinnovabile ai 5,6 mt già previsti dal pacchetto Fit for 55, entro il 2030 sarà possibile sostituire annualmente 25-50 miliardi di m3 di gas russo importato. Oltre a sostituire l’idrogeno grigio negli usi attuali, l’idrogeno verde sarà centrale nella decarbonizzazione delle industrie hard-to-abate e nel settore dei trasporti.
Infine, le rinnovabili
L’energia rinnovabile dovrebbe essere il fulcro delle politiche energetiche dei prossimi anni. Non solo l’energia rinnovabile è centrale per il raggiungimento degli obiettivi climatici, ma producendo elettricità a livello locale può contribuire all’indipendenza energetica. Tuttavia, per raggiungere gli obiettivi che l’Italia si è posta per il 2030, dovremo installare almeno 70 GW di rinnovabili nei prossimi 10 anni. Un numero ambizioso, se pensiamo che ad oggi ci sono circa 60 GW di capacità rinnovabile installata. Ancor di più se prendiamo in considerazione l’arco temporale di riferimento. Gli obiettivi prevedono di installare nei prossimi anni circa 7 GW all’anno, a fronte di una media di circa 1GW all’anno dal 2015. Ad oggi, il principale ostacolo ad una rapida transizione non è la mancanza di capitali ma la lentezza delle procedure burocratiche.
Sul punto, il rapporto Regions del centro studi Elemens con Public Affairs Advisors riporta come più del 90% degli impianti eolici e solari presentati nel 2021 non abbiano superato lo stadio cartaceo. Inoltre, con riferimento agli impianti eolici, è ancora allo stadio di autorizzazione il 57,5% dei progetti proposti nel 2018, il 79,3% dei progetti presentati nel 2019, il 90% dei progetti presentati nel 2020 e del 99,9% dei progetti del 2021. La situazione migliora di poco quanto al fotovoltaico: è ancora in attesa di autorizzazione il 79,5% dei 14 GW richiesti nel 2020 e il 92,4% dei progetti presentati nel 2021.
In questo senso una svolta in positivo può venire proprio dallo scoppio del conflitto. In una recente intervista il ministro della transizione ecologica, Roberto Cingolani, ha affermato che il governo ha appena concluso un’asta da 1,8 GW di rinnovabili e, grazie al decreto Semplificazioni, ha sbloccato molti impianti fermi per problemi autorizzativi arrivando in tre mesi a un totale di quasi 3 GW, più di quanto fatto nei due anni precedenti.
Veniamo all’economia circolare. Qual è il suo ruolo nella transizione? Può l’economia circolare favorire le imprese in questo difficile scenario inflazionistico?
Certamente, l’economia circolare può svolgere un ruolo primario in questo scenario. È importante sottolineare, infatti, che economia circolare non significa solo riuso e riciclo, ma ripensare il ciclo produttivo per minimizzare l’impiego di materie prime vergini e lo smaltimento in discarica dei prodotti finiti. Un’economia maggiormente circolare si traduce in minori costi per materie prime e catene di fornitura più corte, in uno scenario post pandemico caratterizzato da grandi costi e ritardi nelle catene del valore globalizzate. Inoltre, questa crisi dovrebbe obbligarci a ragionare sulle altre nostre dipendenze strategiche da Paesi terzi.
Pensiamo soprattutto alle terre rare, un insieme di minerali di fondamentale importanza per la produzione di batterie, turbine eoliche, pannelli fotovoltaici, elementi fondamentali della transizione energetica. Oggi oltre il 90% del fabbisogno dell’UE di terre rare è soddisfatto dagli approvvigionamenti cinesi. A settembre 2020 l’UE ha annunciato l’Alleanza europea per le materie prime (ERMA) come parte del piano d’azione sulle materie prime critiche. Tuttavia, entro il 2025, secondo le stime di Roskill, la Cina aumenterà di altre 183mila tonnellate di capacità la sua produzione di magneti, che si aggiungeranno alle attuali 300mila, mentre la Commissione Europea, nel suo rapporto sui materiali critici, ha fissato l’obiettivo di settemila tonnellate di magneti.
Numeri non paragonabili. Se vogliamo ridurre la nostra dipendenza è necessario iniziare a recuperare in modo strutturale e strategico batterie, pannelli solari, smartphone e computer arrivati a fine vita per estrarre questi materiali e riutilizzarli nel ciclo produttivo. Per farlo, servono ricerca e investimenti, ma è importante sottolineare che la questione non ha solamente implicazioni economiche, bensì anche geopolitiche, ambientali e sociali.