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Pace armata. Perché senza la Nato non cessa il fuoco

Di Riccardo Sessa

Fa già discutere l’annuncio di Jens Stoltenberg di un esercito permanente della Nato sul fianco Est. Ma non c’è altra risposta possibile a un’aggressione deliberata russa a un Paese libero. Senza deterrenza la pace è una chimera. Il commento dell’ambasciatore Riccardo Sessa

È ora di fare chiarezza e di chiamare le cose con il loro nome, non fosse altro per non alimentare preoccupazione e confusione. Soprattutto in una guerra come quella che stiamo vivendo che è anche guerra di comunicazione. A titolo di esempio, riprendendo non correttamente le dichiarazioni del segretario Generale della Nato Jens Stoltenberg in un’intervista a un quotidiano britannico, si è parlato della creazione di basi permanenti di forze della Nato al confine orientale a titolo di dissuasione nei confronti di eventuali nuove iniziative russe.

Una notizia del genere, che lascia intendere un innalzamento del livello di prontezza delle forze Nato per chissà quali obiettivi, ha sorpreso, destabilizzato e suscitato equivoci, ma la cosa più incredibile è che la questione non sta esattamente in quei termini. Al vertice dei capi di Stato e di governo della Nato del 24 marzo è stato deciso di rafforzare temporaneamente, tramite rinforzi da dispiegare sul terreno, la collaborazione già in corso da anni con le forze armate di paesi membri della Nato ai confini orientali dell’Europa.

Poiché è in atto un’aggressione militare a quei confini, è normale e legittimo che un’organizzazione difensiva disponga il rafforzamento del dispositivo di difesa dei Paesi membri a quei confini. Per essere più precisi, e con misure definite “preventive, proportionate and non-escalatory”, nella Dichiarazione Finale si legge – il comunicato è pubblico – che nell’ambito dei Piani di Difesa dell’Alleanza sono stati dispiegati 40.000 uomini al fianco orientale (Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia e Norvegia) insieme ad assetti aerei e navali e aumentati di ulteriori quattro gruppi di combattimento tattici (battlegroups) quelli già stazionati in Bulgaria, Ungheria, Romania e Slovacchia.

Non ci illudiamo che una simile decisione passi inosservata e non venga strumentalizzata da chi già sostiene che ogni misura della Nato ai confini orientali e ogni aiuto militare sul piano individuale all’Ucraina sia da considerare una minaccia alla Russia e più in generale alla pace. Come nel caso degli aumenti alle spese militari, come se la difesa di un paese possa essere fatta senza le armi. Resta il fatto che la guerra nel cuore dell’Europa c’è, con dimensioni globali e come nessuno immaginava potesse accadere e, malgrado migliaia di morti innocenti e atrocità che ritenevamo tramontate, non riusciamo ancora a capire come se ne possa uscire. Cioè, come si possa risolvere la tragica equazione di ogni guerra: alle armi si risponde con le armi, con buona pace di tanti dubbiosi di complemento, o teorici del “sì, ma però” e normalmente c’è un vincitore chiaro, e se non c’è, la fine della guerra è fragile.

La domanda che tutti ci poniamo è quanto ancora durerà questa guerra. Una guerra il cui andamento, oggetto di ogni speculazione da parte di esperti e pseudo-tali, ogni giorno che passa suscita tanti interrogativi e ci confronta con atrocità di tutti i tipi non solo nei confronti della popolazione civile, e delle fasce più deboli in particolare, ma anche dei combattenti.

Non è obiettivamente facile fare previsioni sulla durata di una guerra che teoricamente avrebbe dovuto essere combattuta con regole di ingaggio del terzo millennio e che, invece, si sta svolgendo secondo schemi della seconda guerra mondiale, se non addirittura della prima. Su una cosa sembrano essere quasi tutti d’accordo: l’esercito russo non ha sfondato. Non stiamo a ripetere valutazioni ormai acquisite sulle debolezze russe in termini di capacità di comando e controllo, o sulle comunicazioni, o la logistica.

Questa volta quell’esercito non è stato fermato dal Generale Inverno, noto da quelle parti, ma da un intero popolo che, con la solidarietà di mezzo mondo, si è mobilitato e armato per difendere il proprio paese. Che qualcosa non abbia funzionato lo ha capito lo stesso comandante in capo Vladimir Putin (titolo che fa ricadere personalmente su di lui tutti i crimini di guerra commessi), che dopo 45 giorni di una “strana guerra” e dopo che ben nove dei suoi generali sono caduti sul campo, ha nominato comandante unico delle operazioni, (non è ben chiaro se ce ne fosse stato uno prima) il generale Aleksandr Dvornikov, noto per aver comandato le truppe russe in Siria e come esperto della cosiddetta “tecnica di Grozny” applicata in Cecenia.

Siamo quindi entrati in una fase nuova della guerra, come documenterebbero anche le foto del convoglio di 12 kilometri di mezzi russi sulle strade ucraine. Una nuova offensiva da parte russa con un’unicità di comando e rinforzi di truppe fresche che si tradurranno in un ricorso più coordinato a massicci bombardamenti, come appunto in Cecenia, e a un più efficace impiego di mezzi blindati, non escludendo armamenti più sofisticati, propedeutici a interventi meglio pianificati delle truppe nei centri abitati. La direttrice è sud/sud-est del paese, da Mariupol a Odessa, a conferma che alla fine quella vasta e strategica regione può finire per rappresentare il “minimo sindacale” che lo zar Putin potrebbe prendere in considerazione per un cessate-il-fuoco e un negoziato.

E qui riaffora l’importanza di una seria attività diplomatica propedeutica alla tregua e alla pace. Seria perché non dobbiamo illuderci che qualunque intervento su Putin possa produrre i risultati sperati, che per lui significano poter negoziare da posizioni di forza sul terreno almeno sotto il profilo di quel “minimo sindacale” di cui abbiamo parlato e che gli consentirebbe il 9 maggio di dichiarare una nuova vittoria.

L’elenco dei potenziali negoziatori è lungo, ma sicuramente ci sono i maggiori attori occidentali e non di questa crisi, Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Turchia, Cina, India, Israele, Unione Europea e ora anche l’Italia. Il problema resta però sempre lo stesso: come porsi nei confronti della Russia. Agli Stati Uniti la responsabilità di giocare bene e in prima persona, sostenuti dai principali alleati, e riuscendo, in un intelligente gioco di squadra con alcuni europei, tra i quali noi, a approcciare la Cina, che deve assolutamente svolgere un ruolo positivo, ma con la quale finora non sono state giocate le carte giuste e nel modo più appropriato.

Un’ultima questione, che riguarda il “dopo”, ma che è essenziale, si riferisce al sistema di garanzie per la pace e per l’Ucraina di cui si sta parlando. Certamente è prematuro, ma l’augurio è che negli ambienti giusti (Palazzo Chigi, Farnesina e Palazzo Baracchini) se ne stia parlando e si stia riflettendo su tutte le implicazioni pratiche per il paese garante. A meno che non si invochino i precedenti del memorandum di Budapest del 1994 e i protocolli di Minsk del 2014 e del 2015 per sostenere che quelle garanzie tanto non serviranno mai, con la differenza che qualcuno poi potrà ricordare come le cose sono andate a finire.

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