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Guerra in Ucraina, cosa è cambiato dopo due mesi. Il punto dell’amb. Marsilli

Si avvicinano i due mesi dall’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina, ma cosa è cambiato da quel 24 febbraio? La riflessione dell’ambasciatore Marco Marsilli, consigliere scientifico della Fondazione Icsa, già rappresentante permanente presso il Consiglio d’Europa e direttore centrale alla Farnesina per le questioni globali e i processi G8/G20

Si sta facendo ormai prossima la scadenza dei due mesi dall’inizio della aggressione armata russa ai danni dell’ Ucraina. Se, alla vigilia di quel fatidico 24 febbraio, non erano molti a credere che la “provocazione” di Mosca di ammassare contingenti militari lungo le frontiere con il Paese confinante, sarebbe sfociata in una invasione in piena regola, ancora meno, tra gli addetti ai lavori, erano coloro in grado di prevedere che a sessanta giorni di distanza da quel drammatico evento l’Ucraina avrebbe continuato ad esistere come stato indipendente. E, questo, nonostante un livello di minaccia inedito, sul piano della sopravvivenza come nazione, nello scenario continentale successivo al secondo conflitto mondiale.

Volendo tracciare una sorta di bilancio, ovviamente a carattere provvisorio, dagli eventi succedutisi in quell’area di crisi nel periodo considerato, nonché delle loro conseguenze, la prima considerazione sembra risiedere nella rinsaldata autorevolezza dell’attuale classe dirigente ucraina, ed in primis del suo presidente, nel rappresentare sul piano interno così come di fronte alla comunità internazionale gli interessi del proprio Paese. Un risultato non scontato, se solo si pensa alla scarsissima credibilità goduta da Zelensky presso i solitamente ben informati servizi russi (il parere dei quali non fu certamente secondario nel convincere Putin ad avviare una operazione militare su scala nazionale, piuttosto che limitata al Donbass), o anche all’ offerta americana, formulata immediatamente dopo l’invasione, di “esfiltrarlo” verso una località sicura.

A ben vedere, anche tale proposta partiva da una oggettiva sottovalutazione delle sue capacità di dedizione alla causa, di coraggio personale e di leadership pienamente all’altezza della emergenza. Le operazioni militari che hanno fatto segnare dal lato degli “aggrediti” successi affatto secondari (citiamo, accanto a possibili altri, la rinuncia russa all’occupazione di Kiev e l’affondamento dell’incrociatore Moskva) e le scoperta degli orribili crimini commessi dagli “aggressori” nelle aree occupate (valga per tutti l’ esempio di Bucha) hanno finito per rinsaldare attorno al “personaggio Zelensky” la volontà di lotta e di resistenza di tutta una popolazione, fatta forse salva una ben delimitata area territoriale.

Un secondo aspetto essenziale è costituito dalla protratta coesione dell’Occidente (intendendo con questo termine Stati Uniti ed Unione europea) nel sostenere senza alcuna ambiguità la volontà dell’Ucraina di opporsi con ogni possibile mezzo alla illegale ed immotivata invasione. L’ adozione di sempre più stringenti sanzioni a carattere economico/finanziario/commerciale, tendenti sia a colpire i corrispondenti centri di potere russo sia, su un piano personale, le figure degli oligarchi e dei detentori di cariche pubbliche, sono state accompagnate da numerose missioni a Kiev di autorevoli esponenti politici, portatori di inequivocabili messaggi di sostegno. Un appoggio chiaramente emerso anche nelle competenti sedi multilaterali, risultando determinante nel dirigere a più riprese in senso anti-russo il voto presso le Nazioni Unite, come avvenuto – ad inizio aprile – in sede di Consiglio per i Diritti dell’Uomo. Da tale foro, Mosca ha preferito “ritirarsi” prima che la esclusione fosse concretamente applicata (scenario analogo a quello verificatosi presso il Consiglio d’Europa di Strasburgo).

A tale compattezza euro/americana contribuisce, e non poco, una sostanziale affinità di vedute, spesso ottenuta a seguito di profonde lacerazioni sul piano politico interno, nel considerare “ineludibile” la fornitura all’esercito ucraino di una ampia gamma di equipaggiamenti e di sistemi d’ arma. Limitati, in una prima fase, a dotazioni prettamente “difensive”, le stesse sono state via via incrementate, aderendo alle richieste in tal senso pervenute da Kiev, da sistemi sempre più performanti, sofisticati e, quello che più conta, “offensivi”.

Ciò premesso, ad una pressione sanzionatoria nei confronti di Mosca realmente efficace fa difetto, come ampiamente noto, la componente che risulterebbe probabilmente decisiva, l’embargo sulle forniture di energia (soprattutto petrolio e gas) dalle quali la Federazione Russa continua invece a trarre ricavi in questa fase per lei vitali.

Sotto questo aspetto, ci troviamo di fronte a situazioni profondamente diverse sui piani nazionali, talmente gravide di ripercussioni interne da non permettere, sino ad oggi, un comune denominatore di comportamento, anche di fronte al condiviso obiettivo di non lasciare impunita un’offesa così eclatante al principio della pacifica convivenza fra Stati. Emblematica, al riguardo, la posizione dell’Italia, che rientra fra i membri Ue più dipendenti dagli approvvigionamenti russi, e che ora è attivamente impegnata, con il premier Draghi in prima linea, in una serrata attività di diversificazione sia di fornitori che di fonti, in vista di un auspicato “sganciamento energetico” da Mosca che – secondo stime attendibili – non potrà essere in ogni caso perfezionato prima di un biennio.

Una terza considerazione, meno positiva delle precedenti, concerne la circostanza che nei continenti diversi da Europa e Stati Uniti i giudizi sulle responsabilità di quanto occorso in Ucraina dal 24 febbraio ad oggi appaiono decisamente più “sfumati”. Le argomentazioni di Mosca in merito alle preoccupazioni sull’espansione verso est della Nato e anche alle persecuzioni subite dalla comunità russofona, sembrano trovare in Asia come in Africa, un grado di comprensione elevato, come conferma – ad esempio – il voto sopra citato relativo al Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu. In quella sede, oltre 80 Paesi o hanno votato contro l’ esclusione della Russia (come la Cina) o si sono astenuti (fra gli altri India, Brasile, Sudafrica e Messico), alimentando il sospetto
dell’apparizione di uno scenario internazionale etichettabile come “the West against the rest”. Una ricostruzione, peraltro, non veritiera, se si considerano le ragioni profondamente diverse che hanno indotto tali Paesi a non schierarsi con la maggioranza anti-russa, che vanno dal rifiuto di un asserito unipolarismo occidentale alla nostalgia per la “generosità” dell’estinta Unione Sovietica, e confluite per l’occasione in una convergenza prettamente tattica.

In prossimità del terzo mese di combattimenti, l’evoluzione della situazione sul terreno e la possibilità che alle armi sia finalmente affiancata, e progressivamente sostituita, una autorevole azione diplomatica, appare difficilmente pronosticabile. Per quanto grandi possano essere le loro differenze su tutti gli altri versanti, i presidenti russo e ucraino condividono, in questa fase, una netta preferenza per un approccio “muro contro muro” che lascia limitati margini di manovra a possibili forme di intermediazione, soprattutto se affidate a “pesi medi” della comunità internazionale, quali Erdogan o l’israeliano Bennett.

Con il sistema delle Nazioni Unite reso praticamente inoperante dal diritto di veto russo (con una lodevole, anche se un pò tardiva, iniziativa, il segretario generale Guterres è atteso comunque nei prossimi giorni a Mosca), solo i riconosciuti “major players” (Stati Uniti, Cina, Unione europea) posseggono, in teoria, le potenzialità per intervenire in tale funzione. Vero è che a seguito delle chiarissime scelte di campo effettuate da tutte quelle entità, un loro diretto coinvolgimento si presenta, oggi come oggi, improponibile, ma non è detto che la situazione “in and around Ukraine” non possa far registrare sviluppi anche imprevedibili. Ad un tavolo di trattative, prima o poi, Putin e Zelensky dovranno infatti pur sedersi, ed è impensabile che possano farlo da soli.

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