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Se in Francia la sinistra ha poco da brindare

Di Domenico De Masi

Calici in su per la sinistra di mezza Europa, Italia inclusa: Macron ha battuto la sovranista Le Pen. Ma dal voto francese ci sono diversi segnali che dovrebbero invitare, se non al silenzio, almeno alla cautela. La versione del sociologo Domenico De Masi

Con il loro humor intellettualizzato, i francesi hanno visto in questa campagna elettorale una rappresentazione edipica in cui uno dei protagonisti aveva ucciso il padre e l’altro aveva sposato la madre.

Ma partiamo dai dati di fatto cui, per ora, possiamo aggiungere tre o quattro riflessioni. Macron ha vinto con il 58,5%; alle elezioni precedenti aveva vinto con il 66,1%. Le Pen ha raggiunto il 41,5%; alle elezioni precedenti era arrivata al 33,9%. L’astensionismo è stato del 28%; alle elezioni precedenti era stato del 25%. Il nuovo premier Jean Castex è un neoliberista che dovrebbe dare al governo uno spruzzo di welfare; quello precedente, Eduard Philippe, è stato il premier delle proteste e degli scioperi.

Che Macron abbia vinto può consentire una boccata d’aria a tutti gli europeisti perché, per il momento, ha impedito il rafforzamento del fronte reazionario “Le Pen-Putin-Erban-Meloni”. Ma la crescita della destra e della destra estrema, in Francia come nel resto d’Europa, dimostra che nei paesi dove prevale l’economia neo-liberista, masse crescenti di elettori migrano dalla sinistra e dal centro verso la destra. E poiché questa economia persiste ovunque, anche sotto mentite spoglie, tutto legittima l’ipotesi che, così restando le cose, entro un paio di mosse la destra anti-europea potrebbe dare scacco matto a Bruxelles.

Il fatto che in Francia, con quattro tornate elettorali (2007, 2012, 2017, 2022), i socialisti e i popolari siano quasi scomparsi mentre Republique en Marche e Rassemblement National siano riusciti a consolidare la loro consistenza, dimostra la disillusione dell’elettorato per i partiti tradizionali, incapaci di adottare un marketing postindustriale, e la sua propensione verso forme di aggregazioni politiche spregiudicate, purché portatrici di messaggi di opposta e radicale identità: nostalgie sovraniste da una parte, utopie innovativiste dall’altra.

Lo stato di salute della sinistra è precario e demenziale in Francia non meno che in Italia. Mentre da noi si spacciano per sinistra un Pd neoliberista, i 5 Stelle confusionali e due partitini incapaci di conquistare un elettorato potenziale di 12 milioni di poveri, in Francia Jean-Luc Mélenchon (estrema sinistra), Yannick Jadot (verdi) e Anne Hidalgo (socialisti) hanno avuto la sconsideratezza di presentarsi separati al primo turno. Così hanno perso la buona probabilità di andare in ballottaggio al posto della Le Pen e poi hanno dovuto sobbarcarsi alla mortificante necessità di votare un neoliberista come Macron pur di evitare la vittoria dell’estrema destra.

In tutta Europa, del resto, la coazione biologica a dividersi è nel Dna della sinistra dove si ammucchiano e si accapigliano piccoli borghesi, proletari e sottoproletari, militanti sotto bandiere che sfumano l’una nell’altra: comunismo, socialismo, terza via, socialdemocrazia, socialismo democratico, liberaldemocrazia, socialismo liberale, socialismo libertario, liberalsocialismo, liberismo sociale, socioliberismo, liberismo di sinistra, liberismo progressista, cristianesimo sociale, alleanza socialdemocratica, anarco-comunismo, geolibertarismo, anarchismo collettivista, e via dicendo.

A meno che nei mesi prossimi il cancelliere Olaf Scholz non sfoderi impreviste capacità di leadership sovranazionale, questa vittoria di Macron, per quanto azzoppata, lo incorona leader dell’Unione Europea, a sua volta zoppicante. Resta così tacitato in Italia il coro frettoloso di elogi, con cui i nostri media attribuirono a Draghi l’eredità della Merkel e il premierato europeo, scambiando provincialmente le sue indiscusse doti di finanziere con quelle di uno statista di statura continentale.

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