Il sistema agroalimentare italiano è uno dei più performanti al mondo con un export che nell’anno appena trascorso ha superato i cinquanta miliardi, un balzo che ha permesso di superare anche i livelli pre-pandemia ma che oggi vede la sua parte più distintiva, l’agricoltura, troppo esposta ai rialzi dei costi di fattori fondamentali della produzione come fertilizzanti, concimi ed energia. Il commento di Ettore Prandini, presidente Coldiretti
Gli effetti del conflitto in corso tra Russia e Ucraina si stanno facendo sentire sulle nostre filiere agroalimentari. Dopo l’aumento dei costi che ha accompagnato la faticosa uscita dalla pandemia di Covid- 19, la guerra ha portato nuovi e più pesanti rincari. Un mix esplosivo che sta mettendo a dura prova la tenuta di intere porzioni della nostra agricoltura, anche in ragione del tradizionale squilibrio dei poteri negoziali che attraversa la filiera agroalimentare e vede, specie in momenti come questi, i produttori agricoli particolarmente penalizzati.
Il sistema agroalimentare italiano è uno dei più performanti al mondo con un export che nell’anno appena trascorso ha superato i cinquanta miliardi, un balzo che ha permesso di superare anche i livelli pre-pandemia ma che oggi vede la sua parte più distintiva, l’agricoltura, troppo esposta ai rialzi dei costi di fattori fondamentali della produzione come fertilizzanti, concimi ed energia. Il bisogno di protezione è evidente e credo anche irrinunciabile per un Paese, come l’Italia, che ha nell’agroalimentare il suo più importante e performante baluardo manifatturiero.
Come fare? Le risposte dovrebbero concentrarsi tanto nel breve quanto nel medio lungo periodo, dato che è sentimento comune che la guerra e i suoi effetti non dovrebbero, purtroppo, risolversi in settimane o mesi e sarà probabilmente una questione di anni quella che abbiamo di fronte. Nel breve periodo bisogna aiutare le nostre imprese agricole, evitando di comprometterne la continuità.
Abbiamo bisogno di interventi che consentano di riequilibrare questa delicata fase in cui i meccanismi di trasmissione dei prezzi si abbattono prevalentemente sugli agricoltori. Come? Riducendo la loro bolletta energetica e dando loro la possibilità di adattarsi alla nuova situazione, favorendo l’autoproduzione di energia e di fertilizzanti. Troppa burocrazia, troppe legislazioni ancora incomplete e troppe incertezze minano le enormi possibilità che l’agricoltura italiana ha a portata di mano per essere più resiliente sia alla guerra sia ai cambiamenti climatici.
Molte cose sono state fatte in queste settimane dal governo, consentendo ad esempio di liberalizzare i fertilizzanti naturali, come il digestato, e di agevolare alcune iniziative per autoprodurre energia, ma il lavoro va completato con interventi infrastrutturali a servizio del settore. Ad esempio un piano per creare invasi artificiali per raccogliere l’acqua, con finalità energetiche e irrigue sarebbe una delle risposte più efficaci nella lotta al cambiamento climatico e al bisogno di innalzare il livello di autosufficienza energetica del Paese.
Ma va dato anche più sostegno alle filiere del Made in Italy, incentivando gli accordi di filiera, la loro stabilità ed elevando le garanzie per gli agricoltori: abbiamo una norma sulle pratiche sleali nel settore agroalimentare ed è ora di darle importanza affinché nessun prodotto agricolo venga più ceduto sotto costo. È nell’interesse dell’intero sistema agroalimentare e del Paese. E oltre al governo c’è l’Europa cui di fatto è demandata la politica agricola degli Stati membri.
Se da un lato possiamo accogliere con soddisfazione la misura varata da Bruxelles che libera circa nove milioni di ettari dal vincolo della messa a riposo (di cui duecentomila solo in Italia), dall’altro non possiamo che dirci per ora rammaricati che non vi siano stati interventi più strutturali e soprattutto che la burocrazia di Bruxelles non sia capace di contestualizzare il momento. Che senso ha proporre, come ha fatto di recente la Commissione, nuove certificazioni e supplementi di burocrazia anche per i piccoli allevatori?
Che senso ha farlo in un momento in cui si lotta per non chiudere? Che senso ha non posticipare l’entrata in vigore della nuova Politica agricola comune (Pac), pensata in una situazione completamente diversa da quella attuale? Crediamo sia inevitabile, alla luce della situazione attuale, uscire dalle rotte tracciate e per questo come organizzazione appoggiamo la richiesta dei rappresentanti delle Camere dell’agricoltura del gruppo di Visegrád (Ungheria, Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia) e della Bulgaria, Croazia, Estonia, Lituania e Romania, che pochi giorni fa hanno chiesto nuove misure per la sicurezza degli approvvigionamenti alimentari e lo slittamento delle nuove misure Pac al 2024.
* Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista Formiche di maggio 2022